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[...]

Jeongguk ritornò da Jimin, al quale consegnò lo zaino e il casco in totale silenzio. Dopo il trattamento ricevuto, la voglia di parlare o di scherzare insieme a quest'ultimo era ben poca: non era stato in grado di ringraziarlo né con le parole né con il benché minimo sguardo. Non che volesse sentirselo dire per essere apposto con la propria coscienza o per chissà quale altro motivo, però era pur sempre un qualcosa di giusto, un fattore morale.

«Andiamo.» disse allora freddamente.

Jimin sbuffò e gli camminò dietro senza aggiungere nient'altro. Sapeva di doverlo ringraziare, o meglio lui gli era veramente grato per quel che aveva fatto per lui, ma era talmente imbarazzato e arrabbiato che non riusciva a spiccicare mezza parola positiva. In quell'istante se solo ne avesse avuto l'opportunità, sarebbe scappato molto lontano, magari in un'isola deserta difronte al mare e alle alte e verdi palme, a spaccare cocchi, a parlare con gli alberi e non con il dannatissimo genere umano.

E dannato anche Jeon Jeongguk, aveva veramente frugato nel suo zaino e preso le chiavi del suo gioiello a due ruote prima di darglielo?

«Mi hai appena rubato le chiavi, rovistando nel mio zaino?»

«No, le ho solo prese in prestito perché tu avresti fatto mille storie prima di darmele e a me non va di ascoltare inutili chiacchiere.»

«Vai a fanculo, Jeongguk.»

«Grazie tante!» il moro roteò fastidiosamente gli occhi e poi mise il casco, aprendo la visiera per avere la piena visuale della cocciutaggine di quel ragazzo che continuava a rifiutarlo. Sospirò e salì sulla moto che accese e fece rombare, mostrando all'altro quanto stesse adorando state sopra la sua moto. Jimin strinse i pugni, gettando fumo da ogni poro. «Vuoi che ti chiami un qualcuno per salire o ce la fai da solo?»

«Non salirò dietro.»

«Farò attenzione, tranquillo.»

«Non mi importa.»

«Va bene.» per quanto fastidio stesse provando, Jeongguk contò fino a dieci e spinse la lingua contro la parte interna della sua guancia. Quel ragazzo era un attraente enigma. In seguito tirò giù la zip della tasca del suo giacchetto e riportò alla luce del sole una bandana nera. «Ti manca qualcosa non è così?» doveva tentare quest'altra opzione.

Park gli diede una rapida occhiata e istintivamente si mise le mani al collo, non percependo nulla se non la sua pelle.

«Ti sei diplomato alla scuola di ladri, porca puttana!» esclamò con sarcasmo. «La smetti?»

«Smettila tu di comportarti come un bambino che fa i capricci! Ti sto solamente aiutando, non ti sto mica rapendo per ucciderti! Sali, ti porto a casa, me ne vado e la questione è chiusa.»

La pazienza del più alto era sull'orlo del precipizio e Jimin alla fine non poté che cedere. Infilò il casco e prese posto dietro Jeon, che sorrise malgrado il nervosismo e tutto il resto.

«Non chiedermi di tenermi a te perché non lo farò, siamo intesi? Mi terrò qui.» informò, segnalando i lati della moto.

«Lo so, Jimin. Questa non è mica una favola!»

Il biondo si accigliò, non essendo riuscito a cogliere il senso delle sue parole. Avrebbe voluto chiederglielo, ma Jeongguk era ormai impegnato a guidare verso l'indirizzo di casa che gli aveva fornito, e poi forse un senso non c'era neanche. Magari lo aveva detto senza pensare o forse era l'ennesimo modo che aveva trovato per stuzzicarlo, per porgli il mondo a soqquadro con paranoie e inutili dilemmi.

E mentre si lasciava trasportare dall'amore per la velocità e dalla volontà di Jeongguk, ripensava a ciò che era accaduto poco prima: al suo attacco di panico. Nel corso della sua vita non ne aveva mai sofferto, ma dopo Tokyo e il suo ritorno a Seoul tutto aveva avuto il suo tremendo inizio. Lo stress, l'ansia, la paura e il suo pessimo stato a livello psicologico erano state le cause scatenanti di quegli episodi così duri.
Il primo era stato sicuramente quello più devastante. Quel giorno si trovava da solo in casa perché Jiwoon lavorava al negozio di tatuaggi e improvvisamente la sua mente venne travolta da una fitta nebbia, non riuscì a capire più nulla, sudava, tremava e una tremenda sensazione di soffocamento lo mise in una posizione di stallo, dove il timore di impazzire e di morire andavano di pari passo con un'intensità esorbitante. Soltanto dopo una quindicina di minuti poté rimettersi in piedi e chiamare di corsa sua cugina, con la voce straziata e la morte nello sguardo.

𝑩𝒐𝒓𝒏 𝑻𝒐 𝑾𝒊𝒏 | 국민 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora