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Da quel giorno ho smesso di dormire.

L'insonnia mi scava gli occhi, mi toglie l'appetito e anche la voce: non ho detto a nessuno quello che m'ha rivelato Stefano, non servirebbe a niente gettare nel caos una città di poveri disperati.

Stefano ha ragione. Quella grandissima testa di cazzo ha dannatamente, atrocemente ragione: più mi guardo intorno, più capisco che tutta questa gente non potrebbe mai scappare efficacemente da questo mare di scarti.

Non riuscirebbe a muovere un passo nel deserto al di fuori delle mura. Morirebbero comunque di fame e di sete, lentamente.

Ma io, io che non ho ancora un destino segnato dalle radiazioni, dal cancro o dall'AIDS... Perché devo morire insieme a questa gente? Io venero il mio egoismo: è quello che mi ha permesso di sopravvivere in questo mondo.

Ogni giorno stalkero i movimenti di Stefano: devo assolutamente controllare quando ha intenzione di partire.

Lo odio con tutto me stesso, ché quella sera mi aveva illuso di provare un minimo di simpatia – o almeno di pietà – per me, invece vuole salvare solo la sua pellaccia. Ebbene, io mi nasconderò in un bagagliaio, in una valigia, ovunque se necessario.

Non voglio morire miseramente come i miei genitori. Mia madre faceva il mio stesso mestiere e mio padre, beh, è quasi comico dirlo, ma è letteralmente morto di freddo mentre era sotto acidi. Lei, invece, se n'è andata a trent'anni con la sifilide. Non è stata una gran tragedia, non li amavo – dato che loro non amavano me: quando sono nato c'è mancato poco che mia madre mi buttasse in un cassonetto.

"Chi va là? Ancora tu?"

Niente, la mia copertura è già saltata. Una sentinella mi sta già abbaiando addosso e deve avermi pure riconosciuto. Gli dev'essere rimasto impresso che Stefano, quella volta, mi si è portato a casa.

Infatti, è uno degli scimmioni di un mese e mezzo fa. Il tizio scende goffamente le scalette di metallo che collegano il suolo alla torretta di controllo e mi guarda, ostile. "Allora? Che diavolo vuoi?"

"Dov'è Stefano? Devo parlargli."

"Ci ha detto che stato trasferito in qualche altra regione. È appena salito su quel treno merci in parten-"

Il mondo mi si fa tutto nero.

Scatto in avanti e, approfittando del portale aperto, riesco a sgusciare tra le inferiate e precipitarmi fuori dalle mura. Sento le urla delle sentinelle dietro di me e degli spari che fendono l'aria: vogliono abbattermi, ma non riescono a beccarmi.

Non credo che abbiano mai visto una situazione del genere: un cittadino che scappa verso il deserto senza neanche mezzo bagaglio dietro; si morirebbe nel giro di un giorno, ma io so dove andare. Mi faccio strada serpeggiando tra le pile di container e immondizia compattata, poi ricomincio a correre come un ossesso verso la ferrovia.

Non sento più le gambe. L'acido lattico brucia talmente tanto e l'aria nei polmoni mi mette a fuoco il petto, ma devo continuare a correre, se voglio vivere.

Poi guardo la linea dell'orizzonte e in mezzo secondo mi rendo conto che quel bastardo di Stefano aveva proprio ragione: predoni da sud. Stanno arrivando proprio adesso!

Non ne avevo mai dubitato e il furbo, per non destare sospetti, è partito giusto in tempo perché sapeva che non nessuno avrebbe fatto in tempo a seguirlo. Tra meno di venti minuti il mio skuoll sarà assaltato!

Nel frattempo, ho letteralmente volato fino ai vagoni che, sfrigolando pericolosamente sulle rotaie, stanno prendendo sempre più velocità. E proprio quando penso di non farcela, o di morire schiacciato tra i ferri, che riesco a saltare su una scaletta in corsa e atterrare rovinosamente all'interno di un vagone di coda semiaperto. E qui cominciano i dolori: mi sono strappato entrambi i polpacci.

Crollo sulla pavimentazione ferrosa mugolando di dolore, il mio cuore sta scoppiando e ho un affanno poderoso. Sto per svenire dall'iperventilazione, ma cerco di puntare un palmo e alzarmi appena, per vedere da chi e da cosa sono circondato: ci sono almeno sei o sette persone, intorno a me, tra uomini, donne e bambini piccoli. Anche loro clandestini. Qualcuno si avvicina incerto per vedere come sto.

"Ce la fai, figliolo?" una signora anziana mi prende delicatamente per un bicipite.

"Sì, sì" rispondo, provato. Mi mordo la lingua per non urlare di dolore, ora come ora non riesco proprio a camminare, perciò mi limito a guardare in lontananza – per non dimenticare mai a che cosa sono appena scampato.

L'arrivo dei predoni del deserto si capisce dalle nuvole di terra bruciata che sollevano al loro passaggio. Sono alla guida di moto, quod, jeep e tir pesantemente modificati che sembrano rozzi e scassati, ma in realtà sono delle fottute macchine mortali spara-fuoco e proiettili. Hanno armi, molte, e nessun senso d'umanità. E io posso solo posare un ultimo sguardo sulla cinta muraria grigia e squadrata di quello che è stato il mio skuoll, prima di svenire dal sollievo e dal dolore.

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