"A lui penso io."
Sento questa frase pronunciata all'aria, da qualche parte vicino a me, mentre mi sveglio del tutto.
Lentamente, realizzo che i ritmici clangori metallici che hanno tormentato il mio sonno sono dovuti al treno in corsa sul quale sono collassato. Mi sento afferrare prepotentemente per il busto e trascinare.
"Lasciami!" scatto, innervosito. Non so chi sia ma se prova di nuovo a toccarmi mi giro e lo strangolo. Così mi volto a guardare e mi irrigidisco come un tronco – anche per il dolore alle gambe, che è atroce. "Tu!"
"Elìa". Non lo pronuncia con lo stesso disprezzo – è genuinamente sorpreso di vedermi – ma evita di restarmi a favore di morso in faccia e si alza in piedi. "Chi non muore si rivede".
"Vaffanculo, Stefano."
E il viaggio è iniziato così, con io dolorante e zoppicante e questo stronzo tatuato in tuta da ginnastica e fresco come una rosa. Ha il suo bello zainone pieno di affetti e provviste, la sua cartina geografica, le sue scarpe da trekking, e io ho solo una bella sacca di rancore e paura.
Qui non c'è niente, a parte casse e cassette di non so cosa. Gli ultimi vagoni di un treno merci sembrano fatti apposta per trasportare passeggeri clandestini come noi. Mio malgrado, mi ritrovo da solo con Stefano.
"Dov'è il resto della gente?"
"Preferisco avere la mia privacy" spiega semplicemente, organizzando lo spazio attorno a sé. Sistema due casse a mo' di panca, mette su lo zaino e inizia a rovistarci dentro, mentre io lo guardo ancora accasciato al suolo.
"Che fai?"
Non mi risponde finché non si avvicina e mi porge una pasticca larga e schiacciata. "Hai qualche muscolo strappato, probabilmente. Questo è l'ultimo antidolorifico che ho, si scioglie in bocca."
Sbatto le palpebre e, diffidente, arraffo la pasticca dalla sua mano e me la ciuccio immediatamente. Neanche lo ringrazio, il dolore mi sta facendo impazzire.
Fortunatamente, Stefano continua a comportarsi coerentemente alla sua natura scontrosa e si siede spalle al muro, a debita distanza da me. "Riposa. Ti serviranno parecchie energie."
"Dove siamo diretti?"
Lui stringe le spalle, poi torna a scrutare distrattamente la cartina, e per un attimo penso che possa conoscere la geografia. "Ovunque lontano da questa merda."
Annuisco una sola volta, scazzato, faccio schioccare la lingua contro il palato. "Tsk, ora è tutto più chiaro."
La conversazione finisce qua, anche perché lo sto detestando. Non tollero la sua presenza, l'idea di dover viaggiare col grinch in persona non mi entusiasma minimamente. Non appena mi sarò ristabilito tanto da poter almeno zoppicare, cambierò vagone.
"A sud", esordisce Stefano, dopo ben dieci minuti di silenzio. "Andiamo a sud."
Mi trascino fino alla parete più vicina e mi rannicchio tirando le ginocchia al petto, non senza qualche verso di dolore, poi getto uno sguardo sospetto a Stefano. "Mi butterai giù dal treno mentre dormo?" dico, con disgusto.
"L'avrei già fatto, se avessi voluto disfarmi di te."
"Complimenti per l'uso dei tempi verbali."
Gli strappo un sorriso e no, non volevo. L'ultima cosa che voglio è far sorridere questo pezzo di merda. La sua bocca si curva in un modo che non credevo possibile, quasi quasi stà meglio ingrugnato.
"Non sono un assassino, Elìa."
"Lo sei, invece", gli spiego, accademico. "Mi hai lasciato là a morire. Ho visto i predoni macinare chilometri verso lo skuoll, mentre scappavo."
Stefano non ribatte e gliene sono grato, per questo. È decisamente più gradevole quando sta zitto. Invece, dopo pochi minuti arriva la risposta.
"Hai ragione, ma adesso siamo qua. Puoi pure odiarmi, ma dovrai imparare a sopportarmi."

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Cuore di plastica
AdventureStefano ed Elìa vivono circondati dalla spazzatura. Non sono amici, si scambiano favori: uno lo paga e l'altro lo accontenta. Soffocati dalle polveri sottili e dalle plastiche, i cittadini di un'Italia postbellica muoiono di cancro o infettati da m...