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La pioggia è pericolosa, da queste parti.

L'acqua, il solvente universale, ossida i ferri e porta in giro melma e plastica; tira fuori liquami radioattivi dai barili di "smaltimento" e crea dei ruscelli di morte.

In troppi hanno già subito mutazioni cancerogene, con conseguente morte istantanea o parti di bambini deformi, orribili. Io e pochi altri siamo stati graziati, ma solo perché siamo nati nella generazione appena prima del disastro e adottato qualche basilare misura di sicurezza. Ma questa non è mai abbastanza... e me lo dimostra il piccolo Mirco, che oggi è morto di AIDS.

Mi sono sentito morire anch'io, una parte di me se n'è andata con lui.

La mia promessa si è rivelata inutile, aria al vento!

Non sono stato abbastanza e adesso, egoisticamente, riesco solo a pensare che non voglio fare questa fine anch'io. Che devo agire e tentare il tutto e per tutto per cambiare il mio status, finché sono giovane e in salute!

Come se non bastasse, l'indifferenza e il cinismo della gente mi hanno lasciato spiazzato. Mentre io me ne sto sotto l'acqua scrosciante – di un altro, maledetto acquazzone – i miei compagni di bordello si sono disfatti del corpo come se a morire fosse stato un uccellino, un animale domestico troppo piccolo per essere amato davvero.

Mi viene da vomitare. Questo mondo mi causa i conati.

Premo i pugni tremanti contro i miei occhi, scosso dai brividi che mi provocano i rivoli d'acqua fredda e sporca lungo il corpo.

"Elìa, che cazzo fai ancora là impalato davanti a un cumulo di terra e rifiuti?"

Gianni, uno dei nostri, mi chiama e la sua voce la sento lontanissima da me, come se provenisse da un'altra dimensione.

"Non è un cumulo di terra. È Mirco!"

"È terra, ormai!" mi urla di rimando, rabbioso. Mi sta dicendo che non bisogna piangere i morti, semmai avere pena per i vivi. "E se ti becchi una polmonite perché ti piace crogiolarti nel dolore, Elìa, presto seppelliremo anche te."




Non ho davvero voglia di lavorare, se il mio si può chiamare "lavoro".

È passato un mese dalla morte di Mirco, un mese durante il quale non sono più lo stesso. Non che io fossi mai stato uno particolarmente gioviale od ottimista, comunque.

La vita mi ha insegnato a cadere nel fango troppe volte e a capire che, anche se ti rialzi, sarai sempre coperto di merda.

Batto per le strade meno raccomandabili dello skuoll, ultimamente. Sopra di me, passano le rotaie sospese che sfrigolano metalliche, producono rumori mostruosi mentre i treni mercantili passano senza fermarsi: l'Amministrazione del mio skuoll non è in condizioni di pagare per avere approvvigionamenti più costosi, come legname e beni alimentari diversi dalla farina di mais e patate.

Sono mezzo nudo, come se non bastasse. Gurzo è a corto di bombole di gas e, per ottenere quelle, una prostituta deve lavorare tanto e bene – così il ciccione mi ha costretto a indossare un paio di shorts di stoffa sdrucita e risicata, e delle cinghie di finta pelle attorno al busto e al collo. E meno male che è giugno, o quel bastardo non si sarebbe fatto scrupoli a farmi crepare di freddo.

Calcio una montagnetta di bottiglie di plastica, seccato. Anche se è relativamente poco che aspetto, so che qualche cliente non tarderà ad arrivare anche se, in effetti, ultimamente sempre meno gente di questo skuoll può permettersi una puttana: la povertà avanza giorno dopo giorno e non fa sconti a nessuno, o quasi.

Avverto il rombo di una moto in lontananza, poi sempre più vicino. Dalle tenebre sfreccia una Guzzi vecchissima, ma ugualmente stupenda, che si ferma davanti a me con un'entrata trionfale. È ovvio che il suo guidatore è qui per prendermi, porta un casco ben assicurato.

L'uomo si toglie la protezione dalla testa e qualcosa, in me, si riscalda. Non riesco a spiegarlo, ma è come se mi sentissi... vagamente contento e rassicurato.

"Stefano."

"Elìa" alza il mento per salutarmi. "Sali."

Di poche parole anche stasera, eh? Non ci vediamo da un mese, ma non me l'ero dimenticato: Stefano è stato uno dei pochissimi – anzi, forse l'unico – con cui mi sia mai piaciuto scopare. La sua unica qualità, per quanto ne so, è quella di essere bello e tenebroso ma hey, è più che abbastanza!

"Come sapevi che ero qui?" gli chiedo allora, accomodandomi a cavalcioni dietro di lui, che dà immediatamente gas al motore.

"Infatti non lo sapevo."

Le mie braccia si stringono attorno al suo busto vestito di una giacca scura, a mo' di vero centauro.

Mi sento quasi sbagliato a pensare che, in verità, l'idea di passare la notte con lui mi elettrizza.

Cuore di plasticaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora