Terra bruciata

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Robin osserva Ben riprendere fiato, il petto che si alza e si abbassa ritmicamente mentre tiene le mani sulle ginocchia. Osserva ogni particolare di lui, dai ricci castani appiccicati alla fronte dal sudore alla maglietta nera, alla quale aveva tagliato le maniche tempo prima.

Ben, dal canto suo, cerca di non urlargli qualche insulto e andarsene, perché proprio non ce la fa più a sentirsi il suo sguardo da maniaco addosso da quando è tornato in Città. Sa bene quanto Robin sia fissato con lui; ai suoi occhi è sempre stato un ragazzino insopportabile e senza un briciolo di personalità, e che quindi ha bisogno di qualcuno da cui attingere idee. Una sorta di sanguisuga.

Il problema è che Ben aveva finito col farci amicizia tempo prima, e fino al suo anno di assenza erano vissuti quasi in simbiosi l'uno con l'altro. Ben aveva bisogno dell'attenzione altrui e Robin aveva bisogno di venerare qualcuno, quindi si erano trovati alla perfezione.

Ma ora le cose sono cambiate. Per Ben, almeno: le punizioni alla Élan lo hanno condizionato a non cercare più l'attenzione degli altri, bensì a sperare di essere ignorato. E quella costante adorazione da parte di quel viscido del suo miglior amico inizia a stancarlo e a farlo sentire a disagio.

«Bella partita,» fa Robin, rompendo il silenzio mentre va a recuperare il pallone da basket rotolato fin dentro il garage di casa sua.

Partita è un parolone per descrivere quello che hanno appena fatto. È una sorta di tradizione: prima che Ben finisse alla Élan, ogni sabato pomeriggio i due si ritrovavano sul retro di casa di Robin, e col suo canestro sgangherato sistemato proprio accanto al garage, giocavano a basket fino a che faceva buio. In genere vinceva sempre Ben, e senza troppi sforzi, ma il suo anno di pausa inizia a farsi sentire.

«Sappi che ti ho fatto vincere di proposito,» risponde solo Ben, andando poi a sedersi sul marciapiedi lì davanti.

«Lo so,» ridacchia lui, prendendo posto accanto all'amico.

Robin palleggia svogliatamente. Il pallone rimbalza sull'asfalto producendo un rumore secco.

«Com'era la scuola?» chiede Robin a un tratto. «La Élan o come si chiama.»

Ben non gli risponde, si limita a guardarlo con la coda dell'occhio mentre si asciuga il sudore dal collo con un lembo della maglietta. Robin continua a fissarlo.

«Una favola,» sbotta lui, ancora con lo sguardo fisso nel vuoto. «Piuttosto, stasera avete davvero intenzione di tornare al campo?»

«Keira e June mi sembravano piuttosto convinte,» dopo averle nominate, Ben nota un certa luce negli occhi di Robin. Ecco, in questo non è cambiato: quando c'è da parlare delle ragazze diventa ancora più strano del solito.

«Lo sapevo,» fa Ben, esprimendosi nella sua solita risata che non sembra una risata, «a te non frega un cazzo di questa storia, ci vai dietro solo per stare con quelle due pazzoidi.»

Robin si morde le labbra, trattenendo un enorme sorriso. È il sorriso di chi ha qualcosa da confessare e per qualche motivo non vede l'ora di farlo.

«C'è una cosa che ancora non sai, Zombie,» fa lui. Quando Robin lo chiama con quel suo nomignolo imbarazzante, in genere sta per sparare una cazzata pazzesca. «Keira sta con Scott, questo è vero, ma me la scopo anch'io.»

Ben inarca le sopracciglia, confuso.

«Cosa sei, una sottopecie di amante?» domanda poi. Beh, allora si sbagliava. Gli standard di Keira non le sono finiti sotto le scarpe, ma sottoterra. Più o meno nei pressi del nucleo del pianeta.

«Credo di sì,» ridacchia lui. Poi torna serio: «Non dirlo a nessuno, mi raccomando».

Ben lo fissa come se avesse davanti un idiota totale. Cosa più o meno vera, ai suoi occhi.

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