Il paradosso di Abilene

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Florence non ha la minima idea del perché le cose siano andate così.

Un attimo prima era nel suo piccolo e perfetto mondo, e l'altro – eccola finita come prigioniera di un gruppo di adolescenti problematici. L'incendio non è altro che un ammasso di fumo denso e puzza nei suoi ricordi, puzza di morte. E la cosa peggiore è che non può nemmeno parlarne con gli altri. Non saprebbe che dire; dovrebbe inventarsi le cose di sana pianta.

Anche adesso, mentre Keira è fuori a fare compere e lei va avanti e indietro per la sua stanza come un animale in gabbia, il solito mal di testa che avverte quando inizia a rimuginare sull'incendio le attanaglia la testa in una morsa – dopo passo a prenderti e ci facciamo un giro con June, le aveva detto Keira prima, con quel suo solito sorriso enorme e forzato, e all'improvviso Florence si rende conto che il mal di testa forse è dovuto proprio a quello.

Chissà cosa sarebbe successo se fosse stata trovata da degli adulti, o qualcuno di più responsabile. Florence ricorda che i ragazzi avevano sempre avuto solo parole di biasimo per gli adulti della Città, e per qualche motivo – come potrebbero venir su dei ragazzini come Ben o Robin o June senza degli adulti terribili? – sull'assoluta verità di queste affermazioni non ha mai dubitato. Dev'esserci qualcosa nell'aria, pensa Florence, qualcosa che trasforma tutti in stronzi o cose del genere. Keira e June le avevano fatto vedere alcuni film horror con una trama simile, e magari una cosa del genere può accadere sul serio.

Qualcosa che abbia a che fare con i fumi delle fabbriche, quella coltre grigia così spessa, capace quasi di coprire il sole. Una schifezza del genere non può far bene: al solo pensiero di dover uscire più tardi le vengono i brividi, figurarsi vivere così una vita intera.

Ma, ecco, inquinamento o no, la cosa peggiore di tutte resta il fatto di essere stata salvata da un gruppo di coglioni insopportabili.

***

Le strade sono costellate da vetri rotti. June li calpesta senza tanta attenzione, facendo scricchiolare gli stivaletti sull'asfalto e creando il rumore più insopportabile che Florence abbia mai sentito in vita sua.

«Questo posto è un'enorme discarica a cielo aperto,» le dice Keira, addolcendo il più possibile il tono di voce, «è normale che chi non è nato da queste parti non si senta a proprio agio qui.»

«È come se mi leggessi nella mente,» replica Florence. All'espressione interrogativa di Keira e June aggiunge: «Stavo pensando all'inquinamento della Città già da un po'».

«Il problema numero uno della città non è l'inquinamento,» proclama June con disinteresse, «È il fatto che nessuno investighi mai sulle cose strane che succedono. Tipo questa,» conclude, indicando la stessa Florence col pollice.

«June,» la rimprovera Keira.

«Che c'è?» sbotta l'amica. «Intendevo la situazione in generale,» si discolpa poi. In un certo senso ha ragione: a nessuno importa risolvere i problemi della Città, figurarsi il mistero che circonda la natura dell'incendio.

«Non riapriamo l'argomento,» dice Keira a denti stretti. Poi, voltandosi verso Florence, nota il suo crescente disappunto per l'ambientazione che le circonda.

Per un po' le tre ragazze continuano a camminare in silenzio, circondate da sacchi della spazzatura e buchi nel cemento. È quasi come se, all'improvviso, la strada e tutto il paesaggio intorno a loro si stesse restringendo, obbligandole a camminare strette tra loro, ad annaspare alla ricerca d'aria. Mentre June e Keira conversano del più e del meno, abituate a scenari del genere, Florence non accenna una parola, quasi come se il nero del cemento, del fumo delle fabbriche e degli edifici assorbisse, oltre alla luce, anche la sua voce. Per tutta la durata della loro uscita, la Città non sembra altro che uno spazio claustrofobico all'esterno.

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