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39 giorni al 7 luglio

Il cuore di Denki batteva più del normale, se ne rese conto dal modo in cui le sue mani tremavano. Lo sentiva sempre, il panico, perché lo assaliva abitualmente da troppi anni ed era diventato bravo a capire quando aveva bisogno di sedersi in un angolo e respirare.

Barcollò fino al muro, le mani trovarono la parete fredda e vi scivolò contro sbattendovi di peso con la schiena fino a ritrovarsi a terra.

Cercava di inspirare profondamente col naso e di espirare con la bocca, ma non sembrava funzionare. Semplicemente, quella sera il panico era troppo forte e lui era troppo piccolo di fronte all'enormità di ciò che lo circondava.

In genere riusciva a prendere il telefono, in pochi minuti Katsuki o Eijiro piombavano da lui e gli prendevano le mani.

Katsuki era più silenzioso, lo guardava negli occhi costringendolo a concentrarsi su qualcosa che non fosse la sensazione che la testa gli esplodesse.

«Fai come faccio io», diceva mentre respirava lentamente intimando Denki di fare lo stesso.

Eijiro sorrideva, lo faceva sentire al sicuro. Gli accarezzava il dorso delle mani ed elencava tutte le cose che avrebbero fatto, anche le più banali: lavare i denti, mettere il pigiama, i pancakes a colazione il giorno dopo. E Denki contava mentalmente, si distraeva e tornava a ragionare.

I suoi amici erano l'unica cosa in grado di riportarlo con i piedi a terra, per questo l'idea che entrambi fossero lontani lo stava facendo reagire in modo così spropositato.

Gli capitava raramente di avere attacchi di panico quando era impegnato; era una sua tattica, a dire il vero. Faceva in modo di riempire le sue giornate di cose da fare in modo tale che il suo cervello non avesse tempo di pensare a sua madre che lo cacciava di casa urlando e a suo padre che girava la testa fingendo di non vedere.

Perché un figlio gay era una disgrazia, secondo sua madre, una macchia nera sulla buona reputazione della famiglia Kaminari.

Chiuse gli occhi ed infilò le dita tra i capelli, li strinse fortissimo fino quasi a farsi male.

«Smettila...» sussurrava a sé stesso. Istintivamente le sue dita raggiunsero il cellulare, composero il numero di Hitoshi e mentre aspettava iniziò a contare mentalmente gli squilli che precedettero la voce del ragazzo.

«Ehi, biondo!»

Le labbra di Denki tremarono; le schiuse cercando di parlare, ma non riusciva a dire niente.

«Denki?»

La voce di Hitoshi cambiò radicalmente, sembrava preoccupato. Il ragazzo strinse i denti cercando di ricomporsi, non voleva farlo morire di paura, eppure si sentiva completamente perso.

«P-puoi venire q-qui p-per favore?»

«Dove sei?»

«Io non... non lo so...»

«Denki, amore ascoltami, va tutto bene. Riesci a mandarmi la tua posizione?»

Il cuore di Denki perse un battito. L'aveva chiamato "amore" forse senza nemmeno accorgersene e tanto gli bastò per ritrovare un minimo di lucidità in quel mare di confusione.

«Sì.»

Attaccò la chiamata, le mani tremavano ancora ma si costrinse ad aprire la chat con Shinso per condividere la sua posizione su whatsapp. Riprese a respirare quando vide le due spunte blu, segno che il messaggio gli era arrivato.

Poggiò la testa al muro e chiuse di nuovo gli occhi cercando di mandare via quel dolore al petto che gli premeva sulla cassa toracica e comprimeva i polmoni.

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