[Otto]

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                                     Manuel

Era riduttivo dire che mi sentivo uno straccio.
Non potevo neanche lamentarmi, tutto questo casino l'avevo creato io, con le mie stesse mani.
Simone lo avevo sempre ferito, respinto. Non potevo pretendere che al mio primo segnale si sarebbe strappato il cuore per metterlo nelle mie mani, a rischio di farglielo fuori, per l'ennesima volta.

Chissà quanto avesse sofferto.
Non capivo se mi sentissi una schifezza perché mi aveva letteralmente detto di lasciargli fare la sua storia con l'altro e starmene a guardare o perché stavo facendo i conti con il fatto che ci era stato di merda, per tutto questo tempo.
Ed io lì fermo, a imporgli la mia presenza per amicizia.
Lui lo aveva accettato, certo. Ma a che pro?

Adesso capivo quanto potesse dilaniare stare accanto a qualcuno che neanche ti guarda.
Non ero sicuro che fosse il suo caso, qualcosa dei suoi comportamenti mi diceva che non gli ero del tutto indifferente, qualcosa di sepolto, molto nel profondo, ancora c'era.

Ma non era bastato.
Avevo provato a comportarmi normalmente, ma ormai si era creato una specie di rapporto imbarazzante.
Io cercavo di parlargli e lui provava a rispondermi, ma non parlavamo mai veramente. Era un dialogo finto, spento.
Sembravamo estranei.

Non dico che mi fossi arreso, ma non volevo rovinargli la vita.
Mi ero reso conto troppo tardi che forse, per lui, ero nocivo. E lo vedevo sorridere con l'altro, chi ero io per togliergli il sorriso?
Quel sorriso.

Perché dovevo mettermi in mezzo, adesso, se non ero stato capace di guardarmi dentro per tempo?
Non volevo colpevolizzarmi troppo.
Era stato un tornado per me, le nuove emozioni, il bacio la sera del suo compleanno, l'incidente. La consapevolezza che qualcosa dentro di me si accendeva quando lo guardavo.
Poi la sua partenza, il distacco improvviso.
Quello si, mi aveva catapultato dentro me stesso, a studiarmi, a capire perché la sua distanza pungesse così tanto.

Finalmente ci ero arrivato.
Sapevo cosa volevo: lui.
Ma ero in ritardo.

Qualcuno lo stringeva al posto mio.

—————————————

Passammo un mese ad essere soltanto vicini di banco, vederci qualche volta per non più di dieci minuti in garage, scambiare qualche parola durante l'intervallo.
Non dico che facevamo finta di mantenere un rapporto, ma dico che facevamo letteralmente il minimo indispensabile per non perderci del tutto.

Mi mancava così tanto che non riuscivo neanche a guardarlo di nascosto.
Se i suoi occhi non incontravano i miei, non serviva a niente.

Arrivò il trentuno ottobre.
La scuola, come ogni anno, si mise d'impegno per preparare una festa di Halloween a base di alcolici e musica a palla.
Non sapevo se ne valesse la pena andarci, avrei passato la serata a cercarlo, spiarlo.
Poi Chicca cercò di convincermi ad andare con lei, ormai eravamo solo amici, si era messa l'anima in pace. Era un po' preoccupata perché mi vedeva spento, non mi riconosceva più come quello che un tempo campava di battutine e sorrisi provocatori.
Nessuno sapeva cosa mi portassi dentro, l'unico che ne aveva avuto un cenno era proprio Simone.

Decisi di non travestirmi, non avevo l'animo in festa.
Portavo addosso già una maschera tutti i giorni, senza che il mondo intorno a me ne fosse a conoscenza.
Indossai un paio jeans, gli stivaletti, maglia e felpa, tutto total black.
Chicca mi aiutò a truccarmi, quello glielo concessi, ma a patto che si limitasse a cerchiarmi gli occhi con la matita e neanche troppo accentuata.
Lei, invece, si vestì da Jessica Rabbit, una versione un po' dark.
Avrebbe fatto risvegliare l'ormone di molti, quella sera.

La sua metà mancanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora