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Gli aerei non mi sono mai piaciuti, credo che fosse stata mia madre ad impartirmi la paura. Da bambina ne prendevo uno ogni settimana per fare visita a mio padre -se così si può chiamare-, lui abitava a Berlino e i week-end fino all'età di dodici anni li passavo lì.

In quei pochi giorni riuscivo a capire perché il matrimonio con la mamma non era durato. Nessuno sarebbe mai potuto stare con Mike Larson. Chiusi i ponti con lui all'età di quindici anni, non lo vedo da allora.

Per evitare che qualcuno potesse iniziare a parlarmi, misi le cuffie col filo, quindi abbastanza evidenti, e gli occhiali da sole, se qualche masochista annoiato mi avesse parlato comunque mi sarei finta francese oppure avrei messo insieme quattro parole che sapevo in tedesco, avrei fatto di tutto pur di non essere disturbata.

Mentre nelle cuffie risuonava Amy Winehouse con Me and Mr. Jones, scrissi un messaggio a Miles prima che l'aereo partisse.

"Mi dispiace andare via Miles, ma è la scelta più giusta, vienimi a trovare. Ti voglio bene."

Mi assalì il senso di colpa, stavo lasciando tutto di nuovo. Stavo lasciando tutto per lui.

Nella mia immaginazione, nel piccolo quadro della sua vita che mi ero costruita, era tutto diverso.
Quando lo lasciai alla stazione, mi sentì così in colpa da creare un intera vita per lui. Ogni anno, aggiungevo un pezzo. Ero arrivata alla parte in cui lui era sposato con una bellissima donna, che faceva la dottoressa e che non solo gli aveva dato un matrimonio felice ma anche tre bei bambini, una femmina e due maschi. Lui mi aveva detto una volta che non voleva figli maschi, ma non ci feci caso, nella mia immaginazione quella bambina, che chiamai Violet era la sua piccola fonte di luce, amava quel esserino come nessun padre aveva mai amato una figlia, la guardava mentre dormiva, le accarezzava la testa, giocava con lei e le cantava le canzoni prima di farla addormentare. Con i maschi, James e Jasper giocava a calcio, gli insegnava a suonare la chitarra e li aiutava con i compiti di matematica, si perché come suo padre, nella mia immaginazione Alex faceva il professore di Fisica e matematica. Gli spiegava i problemi e li obbligava a fare i calcoli senza calcolatrice per esercitare la mente, a fine giornata si riunivano tutti e stavano nel divano, i bambini guardavano i cartoni, o giocavano, dipende dalle sere, Alex e Marylin bevevano del buon vino mentre discutevano su quello che avevano fatto quel giorno. Poi ad uno a uno, da buon padre, metteva i figli a letto, Violet per ultima, perché l'incontro giornaliero con la piccola era una cosa sacra per lui. Una parte di me provava invidia nei confronti di Violet, mi ero costruita questo quadretto di famiglia felice per stare meglio questo è certo, lo amavo troppo per saperlo infelice, ma allo stesso tempo elaborai quello scenario per immortalare tutto quello che nella vita mi era mancato, un padre.
Mi faceva stare bene l'idea che lui fosse un buon padre, che amava i suoi figli più di quanto amasse se stesso, ma in fondo io che cose ne potevo sapere dell'amore di un padre? Di certo non l'avevo mai avuto.

Quella sera quando lo vidi seduto accanto al bancone del bar e più tardi quando facevamo sesso, vidi lei, Violet. Di certo dipinsi quella bambina a sua immagine e somiglianza, stessi occhi scuri, stesso naso, stessa bocca, stessi capelli perfino gli stessi atteggiamenti. Vidi una bambina che non esisteva, vidi un ragazzo che non aveva ancora superato un addio, non vidi un padre, vidi ancora lo stesso ragazzo che avevo lasciato alla stazione, lessi nei suoi occhi il dolore, la nostalgia, e l'amarezza, i lineamenti marcati dagli anni e dai bicchieri di troppo, un vuoto che nessuna notte con nessuna donna potè colmare, certo può darti sollievo, ma non ti fa stare bene davvero. Provai pena per Violet, o forse provai pena per me stessa.

Atterrai al aeroporto di Fiumicino in perfetto orario, volevo visitare Roma, volevo vedere quanto bella fosse. Avevo passato estati, compleanni e momenti felici qui, mia nonna Anna che amavo più di qualunque altra persona al mondo, mio nonno che mi aveva insegnato a giocare a scala quaranta e spiegato cosa fosse il fuorigioco, la mia roccia da sempre, la persona di cui mi fidavo di più.

Mia cugina Giulia e il suo ragazzo Andrea, i miei zii. La mia famiglia.

Sebbene volessi prendere la metro, scendere alla fermata "Manzoni" e andare a casa dei miei nonni, girai strada, presi la metro e mi fermai dinnanzi al Colosseo, un opera maestosa.
Mi sono sempre chiesta se i romani si abituassero mai a tanta bellezza, perché io di certo no.

La sera Roma è anche più bella, ci sono quei bambini che giocano a rincorrersi sulle scale di piazza di Spagna, ricche signore che spendono i loro soldi in via Condotti, anziani che per tradizione buttano le monete dentro la limpida acqua della fontana di Trevi, per poi arrivare al mio spettacolo preferito, dinnanzi al Colosseo, un ragazzo con una vecchia chitarra intonava "Roma nun fa la stupida stasera".

La vera arte sono le persone.

Mi sentivo a casa come mai prima.

Arrivai in hotel alle 23:00, completamente distrutta. Sistemai i vestiti che avevo messo in valigia, l'indomani sarei dovuta andare a casa, la mia nuova meravigliosa casa, un attico ai Parioli che avevo comprato tre anni fa come casa vacanza. La usai una volta per un festino ma per il resto era ancora intatta.

Guardai fuori dalla finestra, l'albergo dava sulla fontana di Trevi ormai quasi del tutto deserta. Nonostante ciò continuavo ad ammirarla, amavo quella città.

young and beatiful || Alex Turner||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora