Parte II - Capitolo VIII

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Sono nato. Ho innalzato ai cieli il mio primo vagito quel dannato venerdì piovoso nel Gennaio 1832, in uno dei ricchi sobborghi della Ville Lumière. Mia madre mi chiamò Vincent, e il mio nome completo fu Vincent Alexandre Joseph Caron. Del mio vero padre sapevo solo il nome, quello che mia madre volle mettermi per primo. Il secondo era quello del mio patrigno, il terzo, quello di suo padre.

Dicono che fossi un bambino bellissimo, coi capelli neri e gli stessi occhi di mia madre. Non conoscevo mio padre, dicevano che fosse un ricco mercante e che fosse morto di febbre durante un viaggio in America. Mia madre era una donna tanto buona e forte, ma non amava suo marito. Tutti sapevano che fossi il figlio del Conte Caron, lei mi aveva detto che si erano sposati solo per evitare lo scandalo di arrivare al matrimonio con un figlio già a carico. Ma lo scandalo più grande era che io in realtà non fossi figlio di suo marito. Si poteva vedere anche palesemente: nonostante lui cercasse di trattarmi come se lo fossi, quell'uomo non m'ispirò mai nulla, non riuscivo ad avere nessun legame con lui, e non ne avevo, come così effettivamente era. Era il sangue a parlare. Intanto mia madre non faceva che raccomandarsi riguardo alla mia ubbidienza. Avrei dovuto portargli rispetto, renderlo orgoglioso di me, e tutte le cose che devono fare i figli nei riguardi di un genitore.

Intanto erano passati già dodici anni, sentivo addosso tutta la tensione, i rancori e l'odio che scorrevano tra i miei genitori. Avevo quasi l'impressione che mio "padre" mi odiasse. Lui viveva di rendita ma era molto avaro. Costrinse mia madre a vendersi e a tredici anni mi mandò a lavorare per arrivare alla fine del mese.

Da piccolo, mia madre sfruttava le giornate vuote per darmi lezioni di pianoforte. Diceva che fosse un bene che un gentiluomo che si rispettasse sapesse suonare qualche strumento, anche solo per diletto.

Un giorno, mi ero messo a frugare tra i cassetti della sua specchiera, giocando, avevo trovato uno strano libro, maltrattato, con la copertina di cartone, decorata con delicati motivi floreali, provai ad aprirlo, ma un lucchetto bloccava i ganci dorati alle due estremità della lunghezza. Pressai con le dita sulla sicura della serratura e sentii il lucchetto cedere e aprirsi. Mi misi a sfogliare il diario, le pagine ingiallite emanavano il profumo di mia madre, quello che indossava sempre. Lessi di un musicista "biondo, bello e aitante". Strano, però: non c'era scritto il suo nome. Parlava sempre dei suoi occhi. Dovevano piacerle molto. Che avesse un amante? Impossibile, le date risalivano tutte a prima che nascessi. Ma allora chi era costui? Velocemente volsi le pagine fino a quando parvero più solide, dove la scrittura si interrompeva e i fogli successivi erano integri.

L'ultima data risaliva a quattordici anni prima. Non capivo. Chi era quest'uomo?

Sentii la voce della mia vecchia balia chiamarmi e mi riscossi, richiudendo tutto velocemente e riposizionando il quadernino in fondo al cassetto. Uscito dalla stanza, richiusi la porta dietro alle mie spalle, per poi vedere arrivare la balia mentre saliva le scale, sollevandosi appena la gonna bianca dell'uniforme.

- Contino, dov'eravate finito? Vi cerco da almeno mezz'ora.

- Perdonatemi, signorina Bouvier, stavo leggendo e mi sono distratto.

- Su, andiamo, vi aspetta la vostra lezione con Monsieur Delacroix.

Quel vecchio monaco. Quanto lo odiavo. La sera, un cocchiere mi accompagnava in uno dei due Café in cui lavoravo, alternando i giorni dispari e i pari. Mi vestivo elegante, abbandonando la camicia ingiallita e i calzoni verdi laceri sulle ginocchia. Usavo l'abito della domenica e per non far insospettire troppo la gente dovettero farmi fare un altro abito e indossarlo due sere sì e due no.

La carrozza si fermava accanto al marciapiede ed io scendevo, vestito come un signore coi miei spartiti sotto il braccio. Essendo molto alto per la mia età, pensavano avessi diciotto anni o giù di lì. Un cameriere prendeva i miei guanti, pastrano e cappello ed io, impettito nei miei abiti impeccabili, mi avvicinavo al pianoforte con molta grazia. Quella sera, come tutte le sere, mi sedetti sullo sgabello sollevando le code della giacca e posizionai gli spartiti, per poi cominciare a premere le dita sottili e lunghe sui tasti di avorio.

Storia di un'anima neraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora