Quella notte non ero riuscito a chiudere occhio. Non capivo... rimaneva ancora un mistero il come facesse mia madre a conoscere quel perfetto sconosciuto.
Perché all'improvviso era come impazzita? Perché si era come ripresa dal torpore della delusione alla sola vista del Maestro? Alla mattina mi svegliai e mi rivestii dopo essermi sciacquato il viso, come se quel gesto avesse potuto riordinare i miei pensieri. Andai a fare colazione e chiesi a una domestica di riferirmi quando mia madre si sarebbe levata, quella mi rispose che era sveglia dalle sei e che era uscita fuori e non era ancora tornata. Non sapevano dove fosse diretta.
Mi infilai il pastrano e raggiunsi le scuderie per prendere un cavallo, montai in sella e decisi di andarea cercarla. Non poteva fuggire, non la capacitavo di un gesto simile e non ero affatto preoccupato.
Sentivo che sarebbe tornata.
Mi diressi verso il parco, forse una passeggiata all'aria aperta mi avrebbe aiutato. Passò un'ora abbondante prima di ritrovarmi nel viale alberato che congiungeva le due entrate principali, una a nord e l'altra a sud, dato che mandavo il cavallo a passo lento, per non farlo stancare. Improvvisamente, però, giunsi quasi a metà strada che vidi un gruppo di persone vocianti, tutte riunite a cerchio, che sembrava avessero visto un morto. Ed effettivamente così era. Più o meno. Spinto dalla curiosità, mi avvicinai e superando tutti in altezza, potei vedere il viso di mia madre, più pallido del solito.
- Largo, largo! Fate largo, questa donna è mia madre!
E mentre scendevo da cavallo affidando le redini ad un gentiluomo, mi avvicinai a lei. Al suo fianco c'era un uomo che le teneva il viso alzato.
- Cosa le è successo?
- È svenuta.
La sua gonna era macchiata di rosso.
- Devo portarla a casa.
- A cavallo? È pericoloso... Io sono un medico, vi accompagno io.
Decisi di fidarmi, chiamammo una carrozza e ci dirigemmo alla tenuta, mentre io stavo loro dietro a cavallo. Sentivo le gambe tremare, una morsa allo stomaco. Cosa diavolo stava succedendo? Perché questo caos all'improvviso?
Ma soprattutto, cos'era quel sangue sulla gonna?
La prima cosa che facemmo quando fummo arrivati a casa, fu quella di portarla in camera da letto. Il medico la reggeva tra le braccia e aiutato dalla servitù, prepararono il necessario per farla sdraiare, poi mi fecero uscire dalla stanza e dentro rimasero solo il dottore e alcune domestiche.
Mio padre era rimasto per tutto il tempo ammutolito, fissando semplicemente la scena con lo sguardo serio. Non sembrava, eppure vedevo la paura e la preoccupazione, in quegli occhi.
- Cos'è successo alla mamma?
Lui non rispondeva, rimaneva con gli occhi fissi sul vuoto davanti a lui. Mi alzai, furibondo e lo
afferrai per il bavero della giacca. Sapevo che in qualche modo centrasse lui. Lo scossi energicamente.
- Cosa le avete fatto!!!
***
Le domeniche passate nei café di Rue de la Loi si susseguirono per mesi. Non rividi mai più
quell'uomo. Per una cosa o per un'altra, mia madre non poté dirmi chi fosse.
Il pensiero di scoprire la sua identità non mi faceva dormire la notte. Sentivo però che avesse un ruolo importante. Che c'entrasse con la vita di mia madre e molto probabilmente anche con la mia.
Dopo la morte di suo figlio, mia madre divenne persino più taciturna di quanto non lo fosse già di suo.
Sembrava continuamente pensierosa.
Mi piaceva espolorare la sua stanza, da quando lei e "papà" avevano deciso di dormire in due stanze separate. Non sapevo perché, ma avevo voglia di ritrovare quel vecchio diario con la copertina ingiallita e le piccole rose sui bordi. Optai per i cassetti del suo scrittoio, ma doveva essere un posto troppo "pericoloso" in cui nascondere un diario, quindi incominciai dai cassetti delle lenzuola. Girai e rigirai le coperte, ma niente.
- Non dirmi che...
Aprii il primo cassetto dello scrittoio. Eccolo lì. In bella vista. Erano due le cose: o mia madre stava diventando troppo prevedibile, oppure voleva che io lo leggessi.
Lo osservai a lungo, dopo averlo preso tra le mani. Lì dentro c'era la risposta alle mie domande. Non ero sicuro di volerla leggere.
Presi un grande respiro.
Mentre nella mia mente si scatenava questo terribile giocoforza, il mio occhio cadde nuovamente sul cassetto da cui avevo preso il diario.
Sul fondo giaceva un medaglione d'oro, la saponetta ovale aveva la superficie opaca, come se non fosse mai stata lucidata, come se non fosse stata indossata da moltissimo tempo. Posai il diario sullo scrittoio e mi abbassai a prendere il medaglione, raccogliendo con cura la catenina a cui era appeso tra le mani, per paura di fare troppo rumore. Aprii la piccola cassa. Su un lato c'erano dei capelli, sembravano biondi. Sull'altro fondo lo spazio era vuoto. Nessun nome, né iniziale. Niente di niente. Distolsi lo sguardo, fissando il vuoto fuori dalla finestra lì accanto. Rimisi il medaglione nel cassetto e ripresi il diario tra le mani.
Lo sfogliai fino all'ultima pagina. La riconoscevo. L'avevo già letta. Mi sorpresero le tracce recenti di inchiostro sotto di essa. La pagina era ancora rigida, quindi era stata aperta solo una volta.
Piano la voltai.
Notai la data: 21 Marzo 1849.
Era vecchia di un mese. Richiusi velocemente tutto.
***
Se mi avessero chiesto come mi sentivo credo non avrei saputo rispondere nemmeno io. Sentivo l'oscurità avvolgermi, in quel momento più che mai. Diventavo un tutt'uno con essa, un sentimento di rimorso, misto a vendetta, attanagliava crudelmente con catene ardenti il mio cuore. Mi sentivo prigioniera. Pensavo così mentre lasciavo che le mie membra trovassero un po' di riposo dopo una notte insonne. La sera era calata da qualche ora e il mio cervello non voleva saperne di lasciarmi in pace. Si sa che la notte porta consiglio.
Ma in mezzo a tutta questa oscurità che avvolgeva la mia anima e mi consumava lentamente come una goccia d'inchiostro che si espande piano in un bicchier d'acqua, cercavo la luce. Mi restava solo un piccolo raggio di quella luce, una rimanenza. Mio figlio. Era ciò che di più prezioso mi potesse rimanere, ma io non volevo solo un raggio di luce, adesso volevo uscire! Volevo uscire dalla dannata gabbia! Volevo stare alla luce e la mia luce era Vincenzo. Cominciai ad essere insofferente ad Alexandre e all'appartamento che ci aveva dato zia Thérèse. Insofferente all'aria di prigionia che aleggiava in quegli ambienti. Per me lui era divetato un'ameba. Un peso.
Da sola sul mio letto, quella notte, stavo sveglia al lume di una candela solitaria sul mio comodino. Solitaria. Come la mia anima. Bramava la sua metà.
Mi sollevai finalmente e presi la scatola di legno accanto al lume. Sopra il coperchio siccava una piccola placca d'ottone, ormai macchiata e annerita dal tempo. Recitava le iniziali "E.B.". Èlise Bordeaux.
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Storia di un'anima nera
Historical Fiction"Non sapeva che fossi prigioniera del Passato, un Passato al quale era difficile voltare le spalle." Milano, 1830.