[ni-jū ni] jiwon

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I can let this
silence resound
仮ゲま握音永









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JIWON
[the weight of the past]






La prima volta che vidi Taehyung nuotare fu a una competizione. Ironico come le nostre vite si intrecciassero persino nelle cose più banali. Io mi ero nutrito di competizioni per tutta la vita, erano state il mio orgoglio più grande per tanto tempo, fintantoché ne uscivo vincitore. Gare di calcolo numerico, gare di vocaboli, gare di velocità. Avevo sempre ottenuto il primo posto, ero sempre stato lo studente eccelso, acclamato dalle giurie e odiato dal resto dei partecipanti. E non mi era mai neppure importato che mi odiassero, perché ero cresciuto con la convinzione che chiunque non primeggi in qualcosa venga automaticamente etichettato come fallito, e dunque non alla mia altezza. Vincere era l'unico traguardo contemplabile per me. Il podio era l'unico posto che mi rendeva orgoglioso di me stesso, ciò per cui ero stato plasmato sin da quando ero in fasce.

Questo fino a quando non ero diventato io stesso un fallito, uno di quelli che papà guardava con sdegno e sfrontata soddisfazione, mentre mi assegnavano l'ennesima medaglia. Quella placca dorata tanto spessa e pesante quanto vuota e inconsistente, che si era aggrovigliata intorno al mio collo fino a strangolarmi, quasi mortalmente.

Vincitore da sempre, e infelice da una vita.

Dunque, per me era naturale cercare in Taehyung un segnale di tensione, un po' della competitività malsana che caratterizzava me quando partecipavo a qualche gara. Quello stato di nervosismo profondo che ti carica di adrenalina e ti svuota di umanità, mentre cerchi di intimidire gli avversari e di motivare te stesso. Affondare il prossimo per risalire in superficie, sempre più in alto, sempre insoddisfatto, come un alpinista che raggiunge una vetta e sta già pensando alla prossima, più difficile da scalare, più impossibile da conquistare.

Ma Taehyung non era così. Non c'era niente in lui che palesasse la sua tensione, niente nel suo sguardo che potesse essere definito competitività, smania di vincere, adrenalina. Gli occhi di Taehyung erano vitrei, spenti, tristi come sempre, mentre entravamo nel centro sportivo dove si sarebbe tenuta la gara. Indossava una tuta grigia con il cappuccio alzato sulla testa, e grigia come i suoi abiti era l'aura che emanava mentre camminava in silenzio, fissando il pavimento. Le sue ciocche azzurre iniziavano a sbiadire, non erano più di quel colore vivido e innaturale che avevano quando l'avevo visto per la prima volta fuori dalla porta della mia stanza. Lo guardavo con la coda nell'occhio, camminando al suo fianco, ma più di tutto osservavo le sue mani, sepolte nelle tasche dei pantaloni. Avrei voluto tanto stringergliele, chiedergli cosa lo turbasse così tanto, perché non fosse felice quanto me dopo ciò che era accaduto in camera sua, dopo quel bacio che avrebbe dovuto cambiare tutto tra noi, e che invece non aveva cambiato proprio niente. Strinsi le mani a pugno, affondando le unghie nei palmi, nel tentativo di fermare quell'istinto. Ero agitato, e non ne capivo il motivo.

𝐑𝐀𝐏𝐒𝐎𝐃𝐈𝐀 𝐈𝐍 𝐁𝐋𝐔 ⁺ ᵗᵃᵉᵏᵒᵒᵏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora