[ichi] l'ora blu

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Sometimes I feel
like a joke
I can't get out of
bed 果影 韻 雲ぜぞ エギイコ





Sometimes I feellike a jokeI can't get out  ofbed    果影 韻 雲ぜぞ エギイコ

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L'ORA BLU




C'è un esatto momento della giornata in cui la notte tramuta in mattino. L'inizio e la fine del giorno si mescolano e il cielo si colora di un azzurro soffocante. I francesi la chiamano heure bleue, l'ora blu. Il mio nome è Jeon Jungkook e quel blu mi ha strangolato la mattina del dieci giugno duemilasedici.

Era il mio ultimo anno da senior nel migliore istituto superiore di Busan e stavo studiando come un matto per gli esami finali. La competizione è sempre stata il mio unico credo, sin da bambino. Ero una macchina da studio che apprendeva velocemente e precocemente. A due anni leggevo senza difficoltà i numeri a due cifre. Mi sedevo davanti alla televisione e ascoltavo le estrazioni del Superenalotto per imparare a pronunciarli correttamente. A quattro feci la stessa cosa con le parole e sorpresi le maestre con la lettura impeccabile di un haiku. A sei anni ho iniziato ad appassionarmi alle scienze; leggevo le enciclopedie sugli animali, risolvevo problemi di geometria e consultavo gli atlanti. A sette guardavo dvd sulla guerra di Corea, seduto compostamente sul divano del mio salotto.

A otto compresi di essere diverso dai miei coetanei e iniziai a isolarmi. Quando tentavo di farmi ascoltare da loro, non provavano neppure a celare il loro disinteresse. Solo in seguito capii quanto dovessero sembrargli strambi i miei discorsi. Al tempo non mi rattristava l'essere solo e senza amici. Ero distratto, avevo fame di conoscenza. La mia indole curiosa mi portava a domandarmi il perché di qualunque cosa e più di tutto mi gratificava soddisfare i miei genitori. Le mie pagelle impeccabili cancellavano per un po' i violenti litigi, le lacrime di mia madre e la tirannia di mio padre.

Quando iniziai la scuola superiore, la solitudine bussò alla mia porta. La mia diversità e la mia intelligenza fuori dal comune divennero un peso per me e cercai in tutti i modi di omologarmi al resto degli adolescenti. Mi facevo tagliare i capelli allo stesso modo, indossavo vestiti alla moda e imparai persino a parlare come loro. Compravo tutto quello che avevano, perché solo in quel modo mi sentivo parte integrante del gruppo. Il denaro non era mai stato un problema per la mia famiglia, ma - dal momento che ero sempre stato solo - nessuno era a conoscenza della mia condizione economica. Quando i miei compagni scoprirono che non soltanto ero il primo della classe, ma anche un ricco figlio di papà, mi odiarono persino più di prima.

La delusione mi ferì più di quanto volessi ammettere a me stesso e fu allora che iniziai a costruire, pezzo dopo pezzo, la mia identità di studente appassionato e figlio ubbidiente. La chiamano Dissonanza Cognitiva ed è il pennello con cui la nostra mente dipinge l'immagine che abbiamo di noi stessi. Dissonanza Cognitiva è un termine complesso che racchiude un concetto talmente semplice da risultare quasi banale.

La vita è un susseguirsi di scelte. Tutte, dalle più importanti alle più insignificanti, hanno un'influenza su chi siamo e chi vorremmo diventare. Le scelte fanno parte del nostro dominio di controllo. Abbiamo potere su di esse, eppure alcune decisioni continuano a logorarci l'anima per anni, perché scegliere significa anche rinunciare. Se ci pensate, è tanto ironico quanto crudele: siamo noi gli artefici del nostro stesso rimorso.

È quando il nostro inconscio apprende che abbiamo preso la scelta sbagliata, che abbiamo rinunciato a qualcosa che desideravamo davvero, è a quel punto che si innesca il meccanismo psicologico di Dissonanza Cognitiva. La nostra mente ci sussurra all'orecchio con la voce più suadente che ciò a cui abbiamo rinunciato non ci serviva davvero, che non ne avevamo bisogno e che in realtà la nostra scelta era l'unica contemplabile.

Ed era quello che avevo fatto anch'io. Mi convinsi che soltanto lo studio poteva rendermi felice e che il mio unico vero sogno era accedere all'università più importante della Corea del Sud.

Mi ero creato un'immagine di me stesso e mi ostinavo a chiamarla identità. Ero tutto ciò che i miei genitori volevano che fossi, tutto ciò che i miei insegnanti si aspettavano che diventassi. Avevo passato così tanto tempo a cercare di compiacerli, che in diciott'anni di vita non ero neppure riuscito a capire chi fosse davvero Jeon Jungkook.

Questi pensieri iniziarono a torturarmi poco prima della fine della scuola superiore, a un mese dal diploma e a due dai test di ammissione. L'ansia divorava le mie giornate e la mia concentrazione calò drasticamente. Più mi costringevo a studiare, meno riuscivo ad apprendere. Tutti i miei timori divennero realtà il giorno in cui affissero i risultati finali sulla bacheca della scuola. Novantanove centesimi, e il mondo mi crollò addosso.

Era possibile vivere una vita in cui non ero il migliore? Mi interrogai su ciò che mi rendeva davvero felice. Mi chiesi quali fossero i miei sogni, le mie passioni, il mio futuro. Accadde la mattina del dieci giugno duemilasedici, quando dopo una notte insonne guardavo l'ora blu inondare la città fuori dalla finestra della mia camera. Era tutto così orribilmente blu che mi sentii come un pesce in un acquario, prigioniero in una casa che sembrava la mia, eppure non lo era. L'acqua mi ostruiva i polmoni, mi riempiva lo stomaco e sgorgava dagli occhi come un fiume in piena. Fu allora che capii che mi ero perso, che forse non ero mai esistito davvero. Mi avevano rubato quell'esistenza effimera che chiamavo vita. L'avevano vissuta al posto mio e io glielo avevo lasciato fare.

Quella nuova consapevolezza e la vergogna che provavo verso me stesso mi piombarono sulle spalle, schiacciandomi al suolo. La crepa si tramutò in solco e mi spezzai. L'identità che mi ero costruito con tanto affanno crollò come un labile castello di carte.

La luce mi trafisse gli occhi, riportandomi alla realtà. Il sole faceva capolino dietro l'orizzonte, segno che la notte stava per finire. Chiusi la finestra, abbassai le tapparelle e mi raggomitolai nel mio letto. Nel buio della mia camera non ci sarebbero stati nuovi giorni, nessun sole a illuminare la mia notte eterna.
Quando mi chiesero qual era il mio ultimo ricordo del mondo esterno, io risposi: il blu.








God knows
I hate myself
I'm naturally sad
ぶ以ギ唄花畏 翁








a/n

Rapsodia in Blu sarà il mio progetto per questa estate. Non sono riuscita a pensare a una storia leggera e spensierata, non ne sono proprio in grado. Anche qui l'introspezione e la psicologia dei personaggi saranno preponderanti. Ormai l'avete capito che non so scrivere senza vomitare i miei sentimenti sulle pagine.

Spero comunque che questo breve capitolo introduttivo vi sia piaciuto. In realtà dice molte più cose di quelle che avrei voluto trasmettere in un incipit, ma doveva venir fuori e evidentemente questa era la sua forma.

Lasciatemi un commento su Jungkook, sarà la nostra unica voce narrante dall'inizio alla fine!

Un abbraccio,
Maddie

𝐑𝐀𝐏𝐒𝐎𝐃𝐈𝐀 𝐈𝐍 𝐁𝐋𝐔 ⁺ ᵗᵃᵉᵏᵒᵒᵏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora