[jū san] kataomoi

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nei media: apocalypse - cigarettes after sex





Come on and 
haunt me 駅トよ桜リ





Come on and haunt me 駅トよ桜リ

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KATAOMOI

Dicono che alcuni silenzi siano più rumorosi delle parole. Ci sono frasi che non hanno bisogno di essere pronunciate per lasciare la loro impronta indelebile nella mente di chi ascolta. E quello che non si dice spesso permane più a lungo di quel che si pronuncia, abbatte i confini del tempo e si incastra lì, a mezz'aria, tra passato e presente.

I silenzi di Taehyung per me erano il primo pianto di un neonato, il grido della madre che lo dà alla luce e il sussurro sulla bocca di un morente. Non si fece toccare, né disse una sola parola mentre piangeva sul mio petto. Sentivo il suo dolore scavarmi la pelle e farsi strada dentro di me. Se avessi potuto, l'avrei fatto mio. Tutto quanto. Avrei voluto rubarglielo soltanto per riuscire a vedere ancora una volta il suo sorriso da bambino. Ma lui non volle concedermi niente, se non il calore delle sue labbra a un millimetro dal cuore.

Quando smise di tremare, mi lasciò i polsi, e solo allora mi resi conto di quanto fosse fredda quella sera di novembre.
«Jungkook, stai piangendo?» mormorò contro il mio petto. Reclinai indietro la testa, come se quel gesto avesse potuto nascondere le lacrime che ancora mi bagnavano le guance, e provai una profonda rabbia verso me stesso, perché persino in quel momento la mia fragilità era più importante della sua.
«No», sussurrai con gli occhi rivolti al soffitto.
«Stai tremando. È colpa mia. Forse dovrei andare». Non appena lo disse, si allontanò da me, e io feci l'ultima delle cose che mi sarei aspettato di fare. Mi sporsi verso di lui e poggiai la fronte sulla sua spalla. Il suo profumo, il calore del suo corpo e i suoi capelli soffici contro la guancia mi sembrarono così irreali che per un attimo mi chiesi se fosse davvero lì con me, o se avessi sognato tutto.

«Resta» sussurrai, sentendo il viso bruciare per la vergogna. Quel tono di supplica era patetico persino alle mie orecchie. «Per favore, resta».
Con dita malferme mi aggrappai alla sua felpa, strinsi il pugno su quel tessuto leggero per negare a me stesso la possibilità di toccarlo davvero. Perché io volevo farlo; desideravo toccarlo, abbracciarlo, baciargli le guance e asciugare le sue lacrime con le labbra. Con il viso nascosto nell'incavo del suo collo quei pensieri mi sembravano meno pericolosi.

Alza la mano, stringi la mia e non lasciarla andare.

Sentii sulla lingua il retrogusto amaro di tutte le bugie che avevo raccontato ogni volta che gli avevo chiesto di starmi lontano, di andare via, di lasciarmi da solo. Ma adesso le mie labbra bruciavano di verità, e se avessi saputo che ammettere di voler bene a una persona fosse tanto liberatorio l'avrei fatto prima. Era la mia resa; gli stavo concedendo di prendersi cura di me, oppure di distruggermi. Con quelle parole avevo messo il mio cuore di bambino tra le sue grandi - e soffici - mani.

𝐑𝐀𝐏𝐒𝐎𝐃𝐈𝐀 𝐈𝐍 𝐁𝐋𝐔 ⁺ ᵗᵃᵉᵏᵒᵒᵏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora