[san] 00:00, plenilunio

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💿 nei media: no surprises - radiohead





❗️ANGST WARNING: questo capitolo di Rapsodia in Blu contiene scene forti che potrebbero urtare la sensibilità di persone che soffrono di depressione, attacchi di panico, ptsd o altri disturbi psicologici. Mi scuso in anticipo.





No alarms and
no surprises,
please 液じざ英代ー





No alarms andno surprises,please 液じざ英代ー

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00:00, PLENILUNIO



La delusione nello sguardo di mio padre continuò a tormentarmi per tutta la notte, anche dopo che mi ero rinchiuso per l'ennesima volta nella mia camera, la mia gabbia dorata. Quelle quattro mura erano tutto il mio mondo, l'unico spiraglio di luce nel buio mesto dei miei giorni. Lì, lontano da tutto e tutti, ero sopravvissuto all'estate più tetra della mia vita. Ora neppure quel luogo riusciva a liberarmi dal peso dei miei fallimenti. Mentre la grande Busan dormiva profondamente, io vagavo nella mia stanza come un'anima in pena. Avevo letto tutti i volumi della mia libreria, senza trovare né la concentrazione né la forza per comprenderne il contenuto. Quando i morsi della fame mi attanagliavano, mi trascinavo a piedi nudi lungo il corridoio. Raggiungevo la cucina a passi lenti e silenziosi, come un automa. Aprivo il frigorifero e mangiavo il cibo che mia madre mi teneva da parte fino a sentire lo stomaco esplodere. Odiavo i miei istinti umani: la fame, la sete, l'odore del mio corpo in decomposizione, mi costringevano a uscire allo scoperto. Ero un soldato disarmato in trincea, troppo esposto al dolore e troppo ferito per sopravvivervi.

Non saprei dire con esattezza quando e come invertii i ritmi del mio sonno, ma a poco a poco mi abituai a vivere di notte e a dormire di giorno, come un cane randagio. La mia veglia era un incubo a occhi aperti. Nulla di quello che accadeva mi sembrava reale. Non ero mai stato dipendente da internet; non avevo mai giocato ai videogiochi come i miei coetanei, mi distraevano troppo dai miei studi. Tuttavia, quando mi abbandonai all'isolamento, diventai schiavo del mio computer, l'unico fasullo contatto che avevo con il mondo esterno.

Trascorrevo ore davanti a quello schermo blu, fino a sentire gli occhi in fiamme e le palpebre pesanti. Ignoravo persino che ore fossero; quando udivo i passi di mia madre riecheggiare nella casa, mi rintanavo nel mio letto, infilavo la testa sotto le coperte e pregavo che Morfeo mi richiamasse a sé.

Nella notte che seguì l'Otsukimi tentai in ogni modo di addormentarmi. Le parole di mio padre mi tormentavano, rimbombavano nella mia mente come un esorcismo spietato atto a distruggermi. Solo quando bevvi, fino a sentire la bile graffiarmi la gola, il costoso whisky di mio padre, crollai sul materasso e mi abbandonai a un'altra notte senza sogni.

Il bruciore che incendiò la mia guancia dolente mi svegliò di soprassalto. Mio padre aveva minacciato di sfondare la porta della camera se mia madre si fosse rifiutata di aprirla.

«Alzati» disse stringendo il pugno sui miei capelli. «Ho detto alzati».

Non opposi alcuna resistenza, non alzai neppure lo sguardo dalle sue scarpe nere e lucenti, le scarpe di un uomo di successo. Davanti a me c'era colui che avevo sempre ammirato, l'eroe cattivo che per tutta la vita mi ero sforzato di emulare. Ai suoi occhi non ero nient'altro che un fantoccio, e io ero d'accordo con lui. Non riuscivo neppure a guardarmi allo specchio, perché vedevo il relitto umano che ero diventato, un inetto senza futuro né talento.

Sentivo lo sguardo compassionevole di mia madre bucarmi la pelle come un coltello e le chiesi di uscire. Il mio dolore era abbastanza, non avrei sopportato anche il suo. Quando se ne andò, mio padre spalancò le finestre, alzò le tapparelle che per mesi erano rimaste chiuse e lasciò che la luce del giorno inondasse la mia camera. Mi fece sedere alla scrivania e mi disse con tono perentorio: «studia».

Fu come se mi avesse legato un cappio al collo e avesse stretto il nodo con tutte le sue forze. Mi sentii soffocare, annegare nelle acque torbide della mia ansia già dilagante. I miei battiti violenti mi fracassavano le costole e mi risalivano su per la gola come dei singhiozzi. Quello fu il giorno del non-ritorno, il giorno in cui persi me stesso del tutto ed ebbi il primo - e forse l'unico - vero attacco di panico.

Accadde sotto lo sguardo sconcertato di mio padre. Mi vide scoppiare nel pianto più disperato, piangere le lacrime più roventi che io abbia mai versato, vomitare sul parquet tutto l'alcol che avevo tracannato. Gridai, mi dimenai e per la prima volta gli chiesi di aiutarmi. Mi aggrappai con tutte le mie forze al suo abito elegante, inginocchiato sul pavimento come un condannato a morte. Si scrollò di dosso le mie mani con il volto trasfigurato dal disgusto e mi disse a denti stretti: «Jungkook, tu non sei mio figlio. Non so chi cazzo sei diventato, ma questo non sarà mai mio figlio». Dopo avermi pugnalato al petto con quelle parole, ignorando il mio patetico grido d'aiuto, uscì dalla stanza e sbatté la porta alle sue spalle.

Il panico mi fluì nelle vene come il più dolce e corrosivo dei veleni per quelle che mi sembrarono ore. Pregai che mia madre non mi vedesse in quello stato, ma ero certo che non avrebbe mai trovato il coraggio di aprire la porta. Di affrontare i problemi, lei non ne era mai stata capace. Quando il mio corpo smise di tremare e il mio respiro tornò regolare, feci la mia scelta, per la prima volta in totale autonomia.

Architettai la fine della mia esistenza con meticolosa precisione. Il luogo, il giorno, l'ora, l'esatto istante in cui avrei lasciato questo mondo, li avevo scelti con cura, razionalmente. Non fu un gesto avventato, ma un evento premeditato.

Diciassette settembre duemilasedici. A mezzanotte in punto, con la Luna piena alta nel cielo. La fredda e candida porcellana della vasca da bagno sarebbe stata il mio letto di morte.

La lama stretta in una mano e la mia patetica vita nell'altra. Chiusi a chiave la porta del bagno, mi spogliai di tutto ciò che mi aveva tenuto vivo fino ad allora e mi immersi nell'acqua gelida. La finestra era spalancata, la notte un profondo pozzo blu, la Luna un faro accecante.

In ospedale mi chiesero con quale coraggio riuscii ad affondare la lama nel mio braccio. All'inizio non capivo neppure la loro domanda. Io mi chiedevo con quale coraggio loro stessero al mondo, con quale coraggio sopportassero il male di vivere. Con gli occhi rivolti alla Luna e l'odore del bagnoschiuma di mia mamma che aleggiava nell'aria, trovai finalmente la pace e il mio riposo.

Il rosso cancellò il blu. L'acqua divenne scarlatta e diede un senso alla mia vuota esistenza, alla mia minuscola morte. Il dolce profumo della lavanda si confuse con l'odore nauseante e metallico del sangue, che in qualche modo trovai confortante. Chiusi gli occhi e mi lasciai scivolare giù. Fu terrificante come cadere da un burrone. Fu dolce come l'assuefazione da morfina. Ero acqua, ero fluido, inafferrabile e inconsistente, tutt'uno con le cose inanimate, spoglio di vita. Gli occhi acquosi vibrarono sotto le palpebre, e pronunciai nella mia mente l'ultima preghiera.

Oh, Dio, se esisti da qualche parte lassù, ti supplico, fa' che io non mi risvegli. Se hai pietà di me, fa' che questa sia la mia ultima notte, il mio ultimo dolore. Lasciami andare.








This is my final fit
My final bellyache
こ鋭音ガふ壱ぎ









a/n

Non so cosa dire, se non che
questo capitolo era necessario
per lo sviluppo della storia.
Mi dispiace. Mi manca il fiato.

𝐑𝐀𝐏𝐒𝐎𝐃𝐈𝐀 𝐈𝐍 𝐁𝐋𝐔 ⁺ ᵗᵃᵉᵏᵒᵒᵏDove le storie prendono vita. Scoprilo ora