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💿 nei media: I need therapy - galaxy fingersI could cry enough
to fill 10 million
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ヰソ 遠ゼー沿
LO SPLEEN DEL FANCIULLINONon mi risvegliai nell'altrove, ma in una stanza immacolata e fredda come una cella frigorifera. Le mie narici non percepirono il petricore, l'odore nefasto della terra bagnata, intrisa di pioggia e di morte, ma ancora quel familiare profumo di lavanda. Avevo mancato il mio incontro con la morte. La sorte aveva voluto che mia madre si accorgesse troppo in fretta della mia assenza. L'acciaio appuntito non aveva reciso fatalmente le arterie. Sei stato fortunato, mi dissero. La mia prima reazione, non appena percepii il mio cuore pulsare di vita, fu piangere. Lacrime d'ossidiana, nere, amare, mute. Lacrime di frustrazione e di rabbia che mi scottavano le guance. La delusione calò come scure sui miei occhi. La vista si annerì.
Perdente anche nella morte.
Vigliacco fino alla fine.Compii l'insano gesto perché mio padre godesse dei frutti del mio sangue versato, perché mia madre smettesse di soffrire e il mio dolore cessasse una volta per tutte. Ma neppure la morte mi aveva voluto con sé. La prima e unica decisione che avevo preso autonomamente era stata sabotata della mia stessa codardia.
Volsi timorosamente lo sguardo al mio fianco. Mia madre dormiva con la testa abbandonata sul letto d'ospedale. I suoi capelli neri sembravano inchiostro sfuggito alla boccetta che si riversava sulle lenzuola candide. I suoi respiri erano lenti e regolari, fuoriuscivano a piccoli sbuffi dalla bocca dischiusa. Le ciglia folte le ricadevano sulle occhiaie violacee. La pelle diafana era emaciata, quasi cianotica, e trasfigurata dalla stanchezza. Il senso di colpa mi assestò un primo pugno allo stomaco, ma il dolore che provai dopo me lo ridusse in brandelli.
Mio padre non c'era. Non aveva lasciato il lavoro nemmeno per assicurarsi che fossi vivo. Aveva preferito che fosse mia madre a risolvere la questione, a preoccuparsi per me, a sopportare il peso dei miei problemi sulle sue spalle fragili, su quella schiena ossuta che aveva già sostenuto troppi dolori. La stavo trascinando sul fondo dell'oceano insieme a me, ma quell'uomo era ancora in piedi, forte della sua indolenza.
Se avessi spinto la lama più a fondo, saresti stato orgoglioso di me, papà? Se fossi morto, un corpo sepolto da strati di terra umida e divorato dai vermi, avresti pianto per me? Mi avresti amato? Se soltanto avessi spinto più a fondo, mi avresti voluto bene?
La solitudine è bramare lo sguardo di chi non t'ha mai guardato. È desiderare l'abbraccio di chi non t'ha mai amato. Mi ero sempre sentito solo, ma, quando mio padre non si presentò in ospedale, compresi che non avrei mai ricevuto il suo amore. Che neppure se mi fossi strappato il cuore dal petto e gliene avessi fatto dono con le mie mani insanguinate e tremanti d'affetto, quell'uomo di ghiaccio mi avrebbe amato.
I miei occhi caddero sul braccio, quell'arto fasciato fino al gomito e smunto fino all'osso. La garza pungente mi pizzicava la pelle, si prendeva gioco di me. Mi chiesi che forma avesse la ferita, non l'avevo guardata neppure una volta. La luna piena aveva riempito le mie iridi nere fino all'ultimo istante di coscienza.
Sollevai il braccio sano e avvicinai le dita al tessuto, sollevando un lembo. Lo strinsi con tutte le mie forze, guardai il soffitto e feci per strapparlo, quando sentii la mano di mia madre cingermi il polso. Pelle contro pelle, sangue del mio sangue, la sentii tremare. «Jungkook» mi disse in un soffio. «Fermati».
Ci guardammo e lessi nei suoi occhi tristi e vacui la mia stessa sofferenza. Avevo sempre creduto di essere come mio padre, un portento, una mente indistruttibile e razionale, pieno di quella fierezza che non si piega dinanzi a nessuno e non si spezza mai. In quell'istante, capii di essermi sbagliato. Io e mia mamma avevamo lo stesso cuore, le stesse fragilità. Anche i nostri silenzi facevano lo stesso rumore. L'avevo sempre reputata una donna debole, ma da anni conviveva con i suoi demoni in totale solitudine. Non aveva paura di crollare né di manifestare il suo dolore e solo allora capii quanto coraggio abitasse il suo corpo magro e ricurvo. Si era sempre rialzata, anche sull'orlo del precipizio.
«Perdonami, mamma» mormorai a denti stretti. Persino in quel momento tentavo di trattenere le mie lacrime. Cercavo di mantenere quel contegno che da sempre mi avevano imposto e che non mi apparteneva.
Mia madre si alzò e mi strinse in un abbraccio. «Piangi, se vuoi. Non ti guarderò, nessuno lo farà. Piangere va bene, Jungoo. Non c'è niente di cui vergognarsi» disse con voce rotta, nascondendo la testa nell'incavo del mio collo. Mi accarezzò i capelli e finalmente scoppiai.
Il sollievo che provai si profuse in me come adrenalina endovena. Il pianto mi sconquassava il petto. I miei gemiti sommessi riecheggiavano sulle pareti bianche e squallide dell'ospedale. Le lacrime bollenti inzuppavano il morbido vestito di mia madre. Mi ci aggrappai con foga, con gratitudine, con amore. Le dita tremule, ma salde contro il tessuto, come se quel candore fosse la mia unica ancora di salvezza.
Fuori da casa mia tremavo di vita. Quel luogo mi aveva risucchiato l'essere, negato la vita, obliterato il cuore. Compresi di aver bisogno d'aiuto, e mia madre me lo offrì.
Quando i miei singhiozzi cessarono, mi prese il volto tra le mani e lo asciugò con la sua veste. Era soffice e profumava di buono. Gli abiti di un genitore sono fatti per asciugare le lacrime dei figli.
«Ti chiedo scusa. La paura mi rendeva cieca e sorda di fronte al tuo dolore. Ti ho lasciato da solo, il mio bambino» mormorò baciandomi le guance, la fronte, i capelli.
«Guardami». E mi persi nei suoi occhi. Erano devoti come una promessa, dolci come una dichiarazione d'amore.
«Promettimi che non farai mai più una cosa del genere. Ne usciremo insieme, guariremo insieme, troveremo la forza» mi sussurrò teneramente, appoggiando la fronte sulla mia.
Poi, lo disse. «Lascia che io ti aiuti».
La mano che avevo atteso inconsciamente per mesi, la salvezza che non sapevo di desiderare, l'amore che non credevo di meritare, si palesarono davanti ai miei occhi.
E quella volta non mi abbandonai alla paura. Annuii impercettibilmente, ma lo feci. Accettai la sua mano e la strinsi con forza. «Va bene» mormorai accennando un sorriso.
«Jungoo, la mamma ti vuole tanto bene. Non dimenticarlo mai».
Perdonami, okaasama. Meritavi un figlio migliore di me. Proverò ad essere migliore per te.
But you always fill
your cup from the
leaking faucet of
my eyes れラケ案し波ヶのマヹa/n
Capitolo di passaggio, ma è uno dei
miei preferiti. Per una volta ho scritto
qualcosa che mi rende fiera, per ciò
che ho detto e non per come l'ho detto,
ma comunque mi rende fiera.
Spero che vi sia piaciuto.
Il primo passo è chiedere aiuto.Fatemi sapere cosa pensate
della storia fino ad ora, anche se
mi rendo conto che è ancora presto🌼Un abbraccio,
Maddie🏹💛
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𝐑𝐀𝐏𝐒𝐎𝐃𝐈𝐀 𝐈𝐍 𝐁𝐋𝐔 ⁺ ᵗᵃᵉᵏᵒᵒᵏ
Fanfiction🌊 𝗍𝖺𝖾𝗄𝗈𝗈𝗄 ، 푸른 Jeon Jungkook è sempre stato il primo della classe, lo studente prodigioso che eccelle in tutto, dalla matematica agli sport. Durante l'ultimo anno di superiori la sua concentrazione subisce un brusco calo, compromettendo i...