23- DAVID

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Dopo aver passato le ore di scuola in disparte, finalmente lui, l'unica persona che mi capiva, era venuto a prendermi.

Passammo davanti a un parco dove alcuni bambini stavano giocando insieme. Mi soffermai a guardarli. Ero stanco di restare da solo, avrei voluto giocare con loro, ma sapevo di non potere.

«Non potrò mai più giocare con gli altri bambini? Non potrò mai più avere un amico?» domandai, sollevando lo sguardo verso l'uomo che camminava al mio fianco.

«Temo di no, David.»

Abbassai la testa, colmo di vergogna. La prospettiva di restare da solo mi intristiva ma, almeno, accanto avevo una persona che mi appoggiava. Con lui non sarei mai stato del tutto solo.

«Possiamo andare al parco, uno di questi giorni?» chiesi speranzoso. Sapevo come la pensava riguardo ai giochi. Per lui non erano utili alla mente. Giocando mi sarei svagato e avrei smesso di riflettere sulle mie colpe, cosa che non doveva succedere. Tuttavia, avanzai la mia richiesta poiché certe volte mi aveva assecondato, anche se raramente.

Lui si voltò e mi squadrò dall'alto. Dopo un momento di esitazione, rispose: «D'accordo, andremo al parco».

Esultai in silenzio, per non manifestare quanto fossi felice all'idea di passare qualche ora di divertimento, ma quella gioia fu spezzata dalle parole che pronunciò subito dopo.

«Andremo al parco, ma ricorda di non coinvolgere altri bambini. Tu devi meditare su ciò che è successo, non devi mai perdere di vista la tua natura. Le relazioni non sono cose per te.»

Me lo ripeteva spesso e io avevo finito con l'accettare senza fare domande, anche se l'amicizia dei miei coetanei mi mancava. Tuttavia, mi veniva costantemente ripetuto che mi sarei abituato.

Abituato.

Con in mente quella parola, tornai al presente. Se abituarsi significava accettare con amarezza la solitudine, il venir sempre messi da parte, ignorare le occhiate ostili degli altri e rinunciare a una vita sociale, allora dovevo proprio essermi abituato. Peccato che non credevo significasse ciò.

Non c'era momento in cui non sbirciassi nelle vite altrui per vedere come si comportava la gente, per vedere bambini che giocavano con amici o fratelli, per vedere coppie che si scambiavano sorrisi, per vedere colleghi che pranzavano insieme o che si salutavano a fine giornata, per ritrovarsi l'indomani. Io non avevo niente di tutto ciò. Da bambino non avevo avuto amici, non avevo giocato con mio fratello, da adulto non avevo nessuno con cui sorridere. Ma doveva davvero essere così?

L'incontro con Anna mi aveva fatto cambiare idea su molte cose. Se fino a quel momento avevo accettato quell'esistenza vuota, adesso mi ero stancato. Più pensavo a lei, più avvertivo il bisogno di cambiare per non doverla perdere.

L'impulso di sentirmi normale, di vivere una vita normale era più forte dell'accettazione che perdurava da anni. Era bastato uno sguardo di quella ragazza per farmi sentire vivo, per ricordarmi che non potevo limitarmi a esistere come esisteva un qualsiasi oggetto. Eppure tutto ciò che avevo sempre assimilato fin da quando ero un bambino continuava a restarmi appiccicato addosso e non si sarebbe staccato tanto facilmente.

Ero indeciso se seguire l'istinto che mi spingeva a cercarla costantemente e ad avvicinarmi a lei, oppure seguire quel poco di ragione che ancora possedevo e che mi suggeriva di lasciarla perdere. Quelle vestigia di buonsenso, però, venivano sopraffatte dal desiderio di fuggire dai tentacoli del mio passato che ancora cercavano di avvilupparmi, dal desiderio di avere un briciolo di felicità.

Forse sarebbe stato meglio se le fossi stato alla larga. Io dovevo stare da solo, non potevo permettermi nessun rapporto con gli altri perché ero deleterio e perché non lo meritavo. Le mie relazioni con le persone si limitavano ai rapporti lavorativi o alle squallide ore con ragazze delle quali non mi importava nulla. Nella mia vita avevo sempre rifuggito la vicinanza di tutti perché non ne ero degno e con Anna avrebbe dovuto essere lo stesso.

The Mind Owner - 1 La tua mente è miaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora