17. Due gocce d'acqua

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La corsa non produce nessun effetto positivo, anzi. Lo lascia con solo addosso sudore e paura, più paura di prima. In più, non sa neppure dov'è, dato che non conosce Chicago e si è sempre mosso con l'aiuto di Declan.

Guardandosi attorno, confuso, Matt scorge forse un parco al di là del marciapiede in cui si trova, allora decide di attraversare. Il cuore palpita furioso nel petto, mentre si muove alla ricerca di una fontanella, che trova dopo qualche metro. Ci mette la testa sotto, bagna completamente i capelli scuri e lascia che l'acqua fresca lo aiuti ad acquisire una parvenza di calma. Eppure quando passa anche le mani sotto di essa e può così vedere ancora una volta le sue dita sporche di sangue, la calma non arriva, arriva solo altra paura, altri palpiti furiosi del cuore, altri respiri affannosi.

Sente la testa girare e deve costringersi a chiudere gli occhi, perché davanti a sé vede tutto confuso, le immagini si mescolano fino a formare qualcosa di sempre più spaventoso. Il verde, il marrone, il giallo e qualche altro colore sparso attorno a lui diventano un solo e grande nero; poi quel nero inizia ad assumere delle fattezze.

Delle gambe, un busto, delle braccia, infine un viso.

E quel viso ha un ghigno cattivo, le sopracciglia corrugate, le rughe attorno agli occhi, un neo appena sopra lo zigomo. Gli somiglia, dannazione. Gli somiglia proprio tanto. Non solo nei colori, ma anche nel taglio degli occhi, della bocca.

«Siete proprio due gocce d'acqua, tu e tuo...»

No!

No.

No.

No.

Non è vero. Non è così.

Non è vero. Non è vero. Non è vero.

Io non sono così. Io non sono così.

Si stringe le mani attorno alle tempie, prova a far sparire quell'immagine davanti agli occhi e per un attimo ci riesce, lui se ne va. Ma poi è da solo, nella sua camera, steso sul letto, rannicchiato in posizione fetale mentre piange con la bocca coperta affinché lui non lo senta, affinché non senta che suo figlio sta piangendo perché si sente in colpa. Perché quella mattina ha provato ad affogare il ragazzo che non parla appena trasferitosi nel bagno della scuola. È stata un'idea di Lucas, ma lui l'ha assecondata senza battere ciglio, e l'ha spinta forte, la sua testa dentro l'acqua. La spinta e ha immaginato che fosse quella di qualcun altro, quella di colui che l'ha messo al mondo ma che per qualche motivo lo odia.

Mentre le gocce d'acqua gli colano lungo le guance e dietro al collo, ricorda che quel giorno ha pensato di avergli somigliato di più delle altre volte. Perché gli aveva somigliato anche nei modi, oltre che nell'aspetto fisico, come gli avevano sempre detto.

«Hai qualcosa da dire?»

No!

Forte, serra i pugni e spalanca gli occhi. La realtà lo deve aiutare, deve per forza essere così. Lo sguardo deve per forza riempirsi di altre immagini. Lui deve sparire, dileguarsi, uscire a forza dalla sua memoria.

Tira fuori dalla tasca il telefono e veloce va tra le ultime chiamate. Non conosce il numero con il quale si è messo in contatto con lui e nemmeno vuole porsi troppe domande. Lo blocca e basta. Poi scorre fino a cercare un altro numero, che chiama ponendosi il cellulare all'orecchio.

«Matt?»

Una voce impastata dal sonno gli risponde quasi subito, dopo alcuni squilli.

«Stavi dormendo?»

«Io... mh, sì... Va... va tu... va tutto bene?»

No, Blythe, non va affatto bene, non va un cazzo di niente bene. Sto male, sto malissimo perché mi ha chiamato, perché ho sentito dopo giorni la sua voce di nuovo. E ho paura, una fottuta paura che mi trovi. Che venga qui.

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