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*H*

Il battito furioso nelle orecchie, il rumore dei miei passi affrettati, i respiri ansanti. Il dolore alle gambe sempre più acuto. Mi sembrava di correre da giorni.

Volevo voltarmi, giusto per essere sicuro che nessuno mi stesse seguendo. Sarebbe bastato un solo sguardo alle mie spalle, un misero, piccolo attimo, ma lui mi aveva intimato di non farlo. Mi aveva fatto promettere di non guardarmi indietro, non rallentare e non fermarmi per nessuna ragione fino a quando non avessi trovato qualcuno che poteva aiutarmi.

Così correvo, correvo senza sapere dove andare né dove mi trovavo. Il paesaggio mi scorreva accanto confuso, il verde delle chiome mescolato al grigio dei rami e al marrone della terra tra un ciuffo d'erba e un altro.

Inciampai sui miei stessi piedi e caddi ferendomi un ginocchio e graffiandomi le mani. Sentivo le lacrime pizzicarmi gli angoli degli occhi ma non potevo lasciarmi andare. Mi rialzai in tutta fretta, incurante del sangue e del fiato corto, ma delle urla mi gelarono sul posto. Nonostante fossero lontane, riconobbi quella lingua straniera che non comprendevo ma che avevo udito molte volte nei giorni precedenti.

Immaginavo che sarebbero tornati. Quello che non mi aspettavo era il paio di colpi di pistola che sentii subito dopo. Seguì un silenzio inquietante che mi lasciò cieco e sordo in preda allo sconforto. Lui era ancora lì, era rimasto indietro per darmi una via di fuga e quei colpi...

Mi guardai attorno, quasi sperando che mi avessero raggiunto e quegli spari fossero stati rivolti a me senza andare a segno perché l'alternativa era che il bersaglio fosse lui.

Girai più volte su me stesso, fluttuando quasi non avessi più un corpo, alla ricerca di qualcosa, di un segno che mi indicasse cosa fare. Niente, solo alberi e foglie.

Dovevo tornare indietro, aiutarlo in qualche modo, fare qualcosa. Ma cosa? Gli avevo promesso che non lo avrei fatto in nessuna circostanza. Gliel'avevo giurato più volte e io non infrangevo mai le promesse. Cosa potevo fare? Cosa dovevo fare?

Le gambe mi cedettero e caddi di nuovo. Mi rannicchiai su me stesso e mi lasciai andare al pianto, ripetendo il suo nome senza sosta, come se quel mantra avesse potuto riportarlo da me.
Mi riscossi quando sentii una mano afferrarmi la spalla e scuotermi con dolcezza.

«Harry».

La prima cosa che misi a fuoco quando aprii gli occhi furono i capelli di Niall. Fregandosene della forza di gravità, se ne stavano tutti alzati verso l'alto senza una direzione precisa come aculei di un riccio.

«Stavi di nuovo parlando nel sonno» mi informò prima di rilasciare uno sbadiglio.

«Lo faccio da quando ho tre anni, te ne sei accorto solo ora?» borbottai tirandomi su a sedere.

«Anche chiamare il suo nome è una cosa che fai da quando eri piccolo?»

Sbuffai. «Torniamo a dormire».

Non ero solito avere dei modi così bruschi ma Niall si stava spingendo là dove sapeva di non dover andare.

«Sta succedendo sempre più spesso» continuò, incurante della mia evidente non-propensione ad approfondire l'argomento. «Ne hai parlato con il dottor Peterson?»

Mi passai una mano sul volto, come se potessi eliminare solo con quella le immagini rimastemi impigliate tra le ciglia e l'inquietudine che si erano portate dietro.

«Peterson non può fare più niente per me».

«Che vuoi dire? Hai smesso di andarci?»

«Sono troppo stanco per parlarne adesso» tagliai corto enfatizzando il tono scocciato.
Niall appoggiò le mani sulle mie guance e si abbassò a guardarmi meglio negli occhi. «Non è colpa tua, Harry».

Mentre fuori impazza un temporaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora