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*H*

Non fu necessario mi svelasse il suo nome.
Stavamo camminando sul marciapiede dall'altro lato del parco, a pochi metri da casa sua. L'ora di cena non era lontana ma il parco ospitava ancora diverse famiglie. Le grida dei bambini che giocavano e le chiacchiere dei genitori riempivano il tranquillo silenzio che ci eravamo concessi nell'ultimo paio di minuti.
Due figure poco slanciate che sembravano essere state fagocitate dalle loro tute da lavoro blu scuro, identificabili come uomini solo dalla barba che ricopriva i loro volti, uscirono dal cancello di una delle case che ci accingevamo a superare, parlottando tra loro in una lingua straniera. Mentre sistemavano alcuni attrezzi dentro il furgoncino nero parcheggiato lì davanti, uno dei due alzò improvvisamente il tono di voce fino a urlare al collega quelli che avevano tutta l'aria di essere insulti, poi chiuse la portiera del veicolo sbattendola con rabbia.
Fu tutto inaspettatamente familiare. Sentii un brivido attraversarmi la nuca. Conoscevo quella lingua, quelle grida di cui non sapevo il significato mi avevano inseguito e perseguitato per anni. Quel rumore secco... uno degli ultimi ricordi di quella giornata che avevo provato a cancellare dalla memoria riuscendo solo a sbiadirne i contorni.
Allungai istintivamente il passo, volevo mettere quanta più distanza possibile tra me e gli uomini già entrati nel furgoncino.
Il suono di qualcosa di metallico che cade a terra mi fece voltare, così mi accorsi che il ragazzo che camminava al mio fianco fino a pochi istanti prima era rimasto indietro. Si era appoggiato alla ringhiera alla sua sinistra, una mano intorno al collo e la busta della spesa ai suoi piedi. Mi affrettai a raggiungerlo, allarmato.
«Ti senti male?»
Lui non rispose. Chiuse gli occhi e si portò entrambe le mani alle orecchie come per ripararsi da un rumore fortissimo. «No, no, no» ripeteva con un filo di voce scuotendo la testa, il respiro affannato. Del sudore gli si era formato sulle tempie e le mani avevano preso a tremare. Ero quasi certo fosse un attacco di panico ma dovevo escludere si trattasse di qualcosa di più grave. «Hai vissuto episodi simili in passato?»
Il flebile sì del ragazzo confermò la mia teoria. Avevo assistito a un paio di attacchi di panico durante il mio primo tirocinio e sapevo che la prima cosa da fare era portare la persona in un posto tranquillo, dove potesse sentirsi a suo agio e non avere addosso gli occhi di tutti.
«Vieni, ti accompagno a casa. Va bene?»
Aspettai un suo cenno, raccolsi la borsa con la stessa mano con cui tenevo la mia in modo da avere l'altra libera e appoggiarla sulla sua schiena per sorreggerlo e guidarlo.
«Ok, ci siamo quasi. Ancora qualche gradino e siamo arrivati. Sto per prenderti le chiavi dalla tasca, d'accordo?»
Lui annuì, il respiro ancora irregolare, gli occhi spalancati e il corpo teso mentre mi affrettavo a infilare le chiavi nella serratura e aprire la porta. Vedendo l'ingresso di casa sua, lo sconosciuto sembrò animarsi di nuova energia: raggiunse il soggiorno quasi correndo e prese a muoversi avanti e indietro sull'enorme tappeto che ricopriva il pavimento tra il divano e il mobile della tv.
«Mi dispiace, mi dispiace».
«Non hai nulla di cui dispiacerti» lo rassicurai posando le buste sull'isola della cucina. Volevo che si riappropriasse del suo ambiente quotidiano, del luogo in cui si sentiva al sicuro. Rimasi quindi a distanza, intervenendo solo come voce fuoricampo per cercare di indirizzare i suoi pensieri nella giusta direzione, senza invadere il suo spazio vitale.
«Non l'ho fatto apposta, io non volevo... non doveva andare così» piagnucolò. Aveva stretto le mani ai capelli quasi volesse strapparseli ma non accennava a rallentare il ritmo del suo andirivieni.
Non ricordavo di aver mai percepito un tale livello di angoscia prima di allora. Avevo avuto a che fare con la paura, il dolore fisico, la vergogna, ma nella disperazione di quel ragazzo c'era il senso di colpa per qualcosa di irrimediabile.
«Ti va di dirmi cosa è successo?» gli chiesi con estrema calma, come avrei fatto con uno dei miei piccoli pazienti.
«È stata una mia idea. Dovevano prendersela con me, solo con me».
Ero certo che si stesse riferendo a un evento passato e sospettavo che non si stesse rivolgendo a me nello specifico. Certo, sembrava rispondere alle domande ed essere lucido a sufficienza da avere percezione della realtà, ma sentivo di non essere il destinatario di quella conversazione, piuttosto uno spettatore imprevisto. Era come se stesse reagendo a qualcosa che gli scorreva davanti agli occhi e che solo lui era in grado di vedere.
Pur non entrando nel suo campo visivo, avrei provato a intavolare una conversazione, un po' come si fa con chi parla nel sonno. «Qual era l'idea?»
«Sono stato attento. Ne era rimasto uno solo e stava andando tutto bene ma poi devono essere tornati gli altri... ho sentito le voci e poi...» scosse la testa. «Dovevo essere io il bersaglio. Era il piano fin dall'inizio».
Arrestò la sua marcia, liberò i capelli dalla presa ferrea delle sue dita e si lasciò cadere sul tappeto. La schiena contro il divano, le gambe piegate, le guance arrossate e le mani appoggiate alle ginocchia che tremavano senza controllo. Aveva gli occhi puntati davanti a sé ma lo sguardo era vuoto, privo di quella scintilla che mi ero già abituato ad associare solamente a quelle iridi blu. Con la mente non era più lì con me e mi resi conto di non poter far altro che aspettarlo alla fine del suo viaggio.

Mentre fuori impazza un temporaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora