I ~Signorina Victoria Rosalie McLay~

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La storia, quella degna di nota, dei McLay ha inizio nel 1982 con mio nonno, Vincent McLay, quando decise di progettare e costruire il grattacielo più imponente e alto di Seattle e dell'intero stato di Washington. Il Columbia Center.

Si tratta di un vero e proprio ammasso di ferro e vetro alto 295 metri e contenente 76 piani.

Proprio grazie a questo, i McLay posseggono un patrimonio di milioni e milioni di dollari, e la fama della famiglia più importante dell'intero stato.

Per quanto mi riguarda, fino ai cinque anni, non mi è mai interessato troppo di possedere un cognome di tale importanza, anzi, nemmeno volevo esserlo una McLay.

Non è poi così tanto facile per una bambina vedersi sui giornali fin da quando aveva ancora il pannolino, perciò non ho sempre amato il mio cognome.

Dai dieci anni ho iniziano a trarne dei piccoli vantaggi, quando ho scoperto i vestiti, il trucco e la combinazione della cassaforte nell'ufficio di mio padre.

Ho iniziato a vedere la vita da un'altra prospettiva, a godere del denaro che la mia famiglia possedeva e possiede, sfruttando il mio nome a mio vantaggio.

Ma, non sono cresciuta nel rosa, nei gioielli e nei rossetti per come si possa immaginare.
I miei genitori hanno sempre voluto un figlio maschio e, anche quando sono nata io, non hanno mai abbandonato il loro sogno.

Agli occhi dell'intera Seattle sono Victoria McLay, l'incredibile figlia della ricchezza, dell'agio, della nobiltà moderna.

E devo essere questo, fin quando avrò sangue nelle mie vene.

«Signorina Victoria, scusi il disturbo»

Chiudo gli occhi e sospiro profondamente, spostando la cuffia dall'orecchio destro e rivolgendo lo sguardo a Samantha, la governante che tiene in piedi la nostra casa da quando sono nata.

Poso la mia calibro 22 Long Rifle sul bancone davanti a me, continuando a fissare il bersaglio che ancora non sono riuscita a colpire.

«Dimmi Samantha»

«Suo padre desidera vederla in giardino, dice che è urgente»

Sbuffo pesantemente e mi strappo le cuffie dalle orecchie, per poi posarle accanto alla pistola.

Urgente.
Immagino cosa sia urgente per lui.
Forse vuole qualche consiglio sul pianoforte nuovo a coda che vorrebbe regalare a mia madre per il compleanno.

"Bianco o nero, Victoria?"
Scimmiotto la sua voce mentre velocemente attraverso l'ampio salone che divide il giardino dalla sala del tiro a segno.

Eppure fingo un sorriso ampio fino agli zigomi quando dalla porta finestra in vetro, lo vedo seduto comodamente al tavolino, con un giornale in mano e un croissant nell'altra, i capelli brizzolati perfettamente in ordine e ingellati, la barba quasi inesistente sul mento gli conferisce un tono serio.

Sospiro profondamente, incapace di non ammettere che almeno in questo siamo totalmente uguali.
La cura di noi stessi, la permalosità.

Supero la porta finestra entrando nel suo campo visivo.

«Papà» mi schiarisco la voce, già annoiata da una conversazione nemmeno cominciata.

Balza sulla sedia, ripiega il giornale e mi fa cenno di sedermi al tavolo con lui, nella sedia di fronte.

Sospiro, consapevole di dargli fastidio, e gli do ascolto forzando un sorriso evidentemente innaturale.

Deadly HeartbeatsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora