VII ~Mister Gun~

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«Perché vai matta per le pistole, Vic?»

L'unica cosa che ricordo di nonno Vincent è la storia che mi raccontava ogni sera, prima di andare a dormire.
No, questa storia non parlava di una principessa che baciava un ranocchio o una povera ragazza dai capelli lunghi e magici, rinchiusa in una torre.

Nonno Vincent mi raccontava di un sicario, che lui chiamava Mister Gun, che come presume il suo nome andava matto per le pistole.
Ne aveva a centinaia, diceva, una più grande dell'altra.

Un giorno, però, Mr. Gun si innamorò della figlia dell'impresario che lo ingaggiò.
L'impresario gli diede l'ordine ben preciso: luogo data e ora riguardo la vittima che Mr. Gun, di lì a poco, avrebbe dovuto uccidere per conto suo.

Una donna, disse l'impresario, una donna che rovinò la sua vita irreparabilmente.

Mr. Gun si impegnò a mantenere la sua promessa: l'avrebbe trovata, uccisa, e portato il suo cuore al suo cliente.

Mr Gun era pronto, il giorno era arrivato, la sera era calata e i suoi occhi cercavano già la lunga chioma bruna e gli occhi da cerbiatto descritti dall'impresario.

Ma, quando vide entrare dalla porta la donna per cui aveva perso la testa, si rese conto dell'inganno dell'impresario, e si pose una domanda: "L'amore vulnerabile e corruttibile di una donna o quello sicuro e indiscutibile di un proiettile?".

Mio nonno non diede mai una risposta a questa domanda, ma ci arrivai da sola una volta cresciuta.

«Le pistole non uccidono, Charlene, sono le persone che premono il grilletto a farlo» getto l'arma sul bancone, rimuovendo le cuffie dalla mia testa.

La ragazza dai capelli blu è seduta poco lontano da me, le gambe incrociate sotto il suo peso, i capelli sollevati in una coda, il pugno chiuso contro la sua guancia e la sinistra a tenere il cellulare.

«Sono pistole. Sono fatte per uccidere e tu ne hai una ad un centimetro dal tuo corpo» non solleva lo sguardo e continua a scorrere il pollice sullo schermo.

Mi appoggio al bancone, soffiando via una ciocca dalla fronte.
Ha paura di me. Ha paura di quello che potrei farle dopo quello che lei ha fatto a me, non le ho ancora dato la mia vendetta e questo pensiero la tortura da quel giorno.
Come quel giorno tortura me da troppo tempo.

Ma no, non le ficcherò una pallottola in testa e basta. Sarebbe troppo facile, e non mi piacciono le cose troppo facili.

«Perché mi hai fatta venire qua? E fatta vestire così? sbotta «Non mi piacciono le tute aderenti e nere, dovresti saperlo»

Sospiro, ha ragione.
Non avrei dovuto avere bisogno del suo aiuto, eppure mi serve una squadra, non posso fare ciò che ho in mente tutta da sola.

Afferro la pistola.
«La vedi questa?» gliela lancio addosso, vedendola sobbalzare fino a quasi rompere la sedia.

«Si, quindi?» soffia, tenendola a stento tra pollice e indice.
«Incastrala nella cintura, ci servirà»
Afferro con le dita la cerniera della mia tuta, uguale alla sua, e la tiro su fino a chiudere anche il lembo di collo che avevo lasciato scoperto per il caldo.

Potrebbe essere una mossa stupida, molto stupida. Ma è calcolata, studiata, ed io non ho intenzione di rimanere fuori mentre i miei genitori sono un passo avanti a scoprire da chi proviene la minaccia dello sparo.
Detesto stare un passo indietro, perciò seguirò la mia pista.

«Perché non lo facciamo domani? Questo grande colpo? È già sera e io non voglio le occhiaie per il resto della vita» fa per alzarsi, ma in uno spintone la getto sulla sedia.

Deadly HeartbeatsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora