XXVIII ~Gentleman~

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Chris

«Scendiamo già?»
La mia voce non risultava mai così piccola, così insignificante come quando stavamo sul tetto del palazzo, e a me piaceva.
Mi piaceva sentirmi piccolo, protetto, accanto a lui.
Mi faceva sentire normale.

«L'atterraggio lo impariamo un altro giorno, Chris» papà mi posò una delle sue grandi mani sulla spalla, stringendomi in un veloce abbraccio mentre già, eravamo tornati sulla terra ferma.

Avevo tenuto per la prima volta il timone, ma quando era arrivato il momento di scendere, ha voluto che lo facesse lui.
Diceva che l'atterraggio è ciò che a volte sembra più facile, ma non se anche il volo è stato difficile.

Avevo imparato già a cinque anni i nomi di tutte le leve che servivano a decollare, a evitare turbolenze tra le nuvole, e avevo ascoltato con attenzione tutti i consigli che papà mi dava, per non far perdere la rotta all'aeroplano.

La quantità di cose che lui mi insegnava lassù, non era minimamente paragonabile a tutte le cose che ancora avevo da imparare quaggiù.
Nessun bambino sa più del cielo che della terra su cui cammina, per questo non ero un bambino normale.
Anche se papà intendeva una cosa, la mamma un'altra.

«Chris stammi bene a sentire» si piegò sulle ginocchia per arrivare alla mia altezza, tenendo le mani strette alle mie braccia.
Sorridevo ancora al ricordo dell'aeroplano di papà che attraversava una nuvola.

Portò le mani al collo, sfilandosi la catenella in ferro che portava sempre con se, sotto i vestiti.
Mi diceva sempre che era un ricordo di quando faceva parte dell'esercito.
Di questo, aveva solo questa tessera con inciso il suo nome, e l'aeroplano che mi ha insegnato a pilotare.

La porse nella mia direzione, lasciandomela scivolare grande e pesante al petto.
«Voglio che la tenga tu»

«Perché?»

«Perché un giorno sarai lì fuori, da solo, e questa ti aiuterà a ricordarti chi sei» rivelò sincero, indicando distrattamente oltre il cornicione alle nostre spalle, l'immensa città che ancora aspettava me.

«So chi sono.» risposi sicuro, guadagnandomi un broncio serio.

«Sei troppo piccolo per saperlo, molti adulti non lo sanno neanche alla loro età» mi spiegò, sollevandosi e stringendo la mia piccola testa contro il suo fianco.

«Un giorno sarà mio, vero?»

E papà mi guardò dall'alto, l'aria sperduta davanti a sé e una leggera rassegnazione che gli velava gli occhi.
Lo sapevo, che il Northgate sarebbe stato mio un giorno.
Speravo solo il più tardi possibile.

«Non posso saperlo io, tutto questo è di tua madre»

«E dov'è adesso?»
Dov'era sempre, avrei dovuto chiedere, ma non lo facevo mai.
Avevo paura della risposta.

Si piegò ancora una volta sulle ginocchia, solo per allineare i nostri visi e mostrarmi ciò che un padre non avrebbe mai dovuto mostrare al figlio: paura, anche lui.

«Non farti mai più questa domanda, Chris. Tua madre non c'è, e non ci sarà mai per te.»

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