XVIII ~Cassetta incantata~

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Chris

Mia madre era un'assassina.
Non mi ci volle poi tanto a capire quello che era successo la notte in cui fui portato in orfanotrofio.
A ricordare e unire i pezzi del puzzle.

Il sangue, tutto quel sangue sulle sue mani, che poi finì anche sul mio viso.
Il sangue di mio padre.

La brutalità con cui lei mi aveva costretto ad assistere, perché "Si vive così, Christopher" mi aveva insegnato.
Ma io non volevo vivere così, non volevo essere come lei.

Eppure la guardia davanti a me prese a sanguinare dalla giugulare, e il sangue che sprizzava fuori dal suo collo mi sporcò le guance.
I suoi occhi vuoti, senza emozioni, inermi mentre stringeva la mano alla morte, non mi fecero alcun effetto.
E forse ero esattamente come lei.
"Questo è quello che devi fare se ti viene negata la libertà" mia madre continuava a parlarmi all'orecchio mentre estraevo con forza la forbice appuntita dal collo del poliziotto.
Dio, come soffriva, lessi dolore nei suoi ansimi spaventati.
Lessi malinconia per i suoi figli, che non avrebbe più rivisto nell'arco dei suoi ultimi quindici secondi di vita.
Perché un bastardo che deve scappare da un orfanotrofio gli ha negato la possibilità di vederli crescere, di vederli felici nella loro vita.

Smise di scalciare, di dimenarsi, di lottare contro la presa ferrea della morte, e si accasciò sul pavimento lugubre del suo sangue.
Guardai la punta delle forbici, spostai lo sguardo verso di lui e allungai la mano a chiudergli quei mostruosi occhi spenti.

«Andiamo, non ci metteranno tanto a capire che le telecamere sono disattivate» mi fece fretta Rien, tirandomi da un braccio.

Annuii velocemente, guardando l'uomo steso per terra dall'alto. Io gli avevo fatto quello, io era lo copia esatta della donna che mi mise al mondo.
Avevo diciassette anni ed ero stremato di essere rinchiuso in quelle quattro mura.

Afferrai Rien per una mano quando mi accorsi dei passi veloci che si avvicinavano lungo il corridoio, lo tirai fino a nasconderci dietro l'angolo del muro, e lo trascinai istintivamente al mio petto tappandogli la bocca.
Era più piccolo, di qualche anno, avevo una strana sorta di protezione verso di lui.
Ma dovevo portarlo con me in quella fuga, non potevo lasciare l'unica persona a cui io mi fossi mai affezionato in quel posto di merda.

Le guardie corsero come animali in fuga lungo il corridoio, superandoci.
Ma io avevo già la mano premuta sul petto di Rien, e toccai qualcosa di morbido.
Di fin troppo morbido oltre l'enorme felpa lurida che portava sempre addosso.

Allontanai il palmo come scottato e lui balzò via dalle mie braccia come se lo avessi schiaffeggiato.

Cosa diamine?

Guardai le sue guance rosse infuocarsi, mentre inclinai leggermente la testa su di lui.
Non che io abbia mai toccato qualcuno che non sia del genere maschile, ma ero abbastanza certo che i ragazzini non avessero nulla di morbido nel petto oltre i vestiti.

«Rien» soffiai confuso, mentre lui si passava le mani sulla testa.

Il capo iniziò a formicolarmi confuso, mentre tutti i pezzi del puzzle si univano lentamente.
Non voleva che entrassi quando faceva la doccia, non voleva cambiarsi nella stanza con me, non voleva prestarmi i suoi vestiti o usare i miei.
Tutto si riconduceva ad un'unica risposta, e l'unica persona che conoscevo all'interno di quell'istituto mi aveva preso in giro per tutti questi anni.

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