4. Thoughtless

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Alexandra

Avevo la testa colma di pensieri e di preoccupazioni, era vero, ma quando Dylan mi aveva condotta in quella stanza trasparente, direttamente immersa nell'Oceano, tutto sembrava essersi assopito. Era come se i problemi si fossero accucciati sulla mia spalla e si fossero addormentati. Non erano scomparsi, li sentivo vicini, eppure avevano smesso, per quella sera, di urlare nelle mie orecchie, facendomi rimbombare nella testa le riflessioni, le paure e i ricordi dovuti a quelle fotografie.

Dopo l'acquario eravamo tornati a casa a notte fonda, villa Ivanov era deserta. Brilli e infreddoliti, c'eravamo diretti verso la piscina riscaldata, che si trovava al piano inferiore della casa, c'eravamo spogliati, rimanendo con solo le mutandine e i boxer, ed eravamo entrati nell'acqua, la quale disperdeva nell'aria un intenso odore di cloro. Avevo avvertito dei dolci brividi sfiorare la mia pelle, quando, dopo aver raggiunto a nuoto il centro della piscina, Dylan mi aveva stretta tra le sue braccia, permettendomi di poggiare la testa sul suo petto.

Allora, con l'alcol che scorreva nel mio organismo a ritmi inferociti, mi ero appropriata delle sue labbra, sviluppando a un bacio focoso, tuttavia sentimentale, in cui gli condividevo tutta la mia gratitudine per quella serata trascorsa divinamente, circondata da una delle cose che più amavo: il mare.

Arpionai con le dita i suoi capelli, mentre mio marito mi posò le mani sulle gote, accarezzandole dolcemente. Feci lo stesso con quella matassa scura, che portava sempre disordinata sulla testa, sfiorando le ciocche bagnate e cibandomi della loro morbidezza, nonostante fossero appesantite dall'acqua.

Avvinghiai le gambe longilinee al suo bacino, lo sentii sospirare, quando le nostre intimità si toccarono. Fu allora, mentre la sua lingua accarezzava ancora la mia, che feci scorrere i polpastrelli lungo i suoi addominali, tastandoli con ardore e compiacendomi davanti a quei muscoli allenati. Dalle guance, Dylan spostò le falangi sui miei fianchi, stringendoli, tanto da spingermi più vicina di quanto non fossi.

Un gemito raschiò la mia gola, nel momento in cui avvertii il rigonfiamento tra i boxer premere contro la mia intimità, già umida, ma non abbastanza da accogliere il suo membro.

Mi strizzò le natiche, mi scostai dalla sua bocca per riprendere fiato, poi, quando l'aria cominciò a scorrere nei miei polmoni, mi dedicai a posare le labbra gonfie sul suo collo bagnato. Ansimò pesantemente, distratto dai movimenti circolari del mio bacino e dalla dolce tortura che stavo applicando sulla sua pelle calda. Le dita corsero tra i suoi capelli, strattonandoli, in modo che spingesse la testa indietro, dandomi un maggiore accesso al suo collo. Succhiai la sua pelle, marchiandolo come lui aveva fatto con me poche ore prima. Ed io, che in passato avevo odiato richiami di possesso, come lo erano i succhiotti, ne ero diventata dipendente, volevo che le altre donne lo guardassero e notassero quei segni violacei che io, sua moglie, gli avevo lasciato addosso. Volevo che m'invidiassero, perché io possedevo tutto di lui, il corpo e la mente. E sembravo una psicopatica del cazzo, una persona tossica, mangiata dalla gelosia, e, in realtà, lo ero, perché lui poteva avere solo me ed io potevo avere solo lui, per sempre.

Mai gli avrei impedito qualcosa, mi fidavo ciecamente di lui, Dylan Ivanov aveva imparato a venerare il mio corpo, la mia mente, e anche se ci capitava di litigare, sapevo che tutto si sarebbe risolto, perché noi eravamo una dipendenza l'uno per l'altra. Lo davo per scontato, ma non sapevo cosa sarebbe successo da lì a poco, in che situazione mi sarei cacciata.

Dylan aveva fatto scorrere i polpastrelli sul retro delle mie cosce, mi aveva accarezzata come solo lui sapeva fare e io avevo sospirato contro la sua pelle, causandogli un ghigno soddisfatto. Aveva scostato la stoffa della mia mutandina e aveva accarezzato il centro pulsante tra le gambe, distraendomi dai baci che stavo posando interrottamente sul suo petto. Le mie unghie avevano arpionato la sua schiena con ardore, ed ero sicura che gli sarebbero rimasti i segni, ma non me ne importai molto.

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