8. Guilt feelings

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Alexandra

La serata che avevo organizzato era stata un successo; tutti aveva apprezzato l'ospite speciale, invitato a prender parte all'evento, la musica, l'organizzazione eccellente e il rinnovamento dell'ambiente, ora più spazioso, intimo e adatto a ogni esigenza, ero sicura che in molti sarebbero tornati a frequentare abitudinariamente il club, forse la clientela sarebbe addirittura aumentata.

Tornammo alle tre di mattina, crollammo subito, non prima di aver controllato che i bambini stessero riposando nelle loro camere. Nonostante la stanchezza, che pesava sulle mie spalle, alle cinque e mezzo le mie palpebre si sollevarono di scatto, a causa di un incubo; sicura che non sarei più riuscita a dormire, mi ero limitata a chiudermi nel bagno privato per fare una doccia calda.

Avevo strofinato con prepotenza la spugna sul mio corpo, arrossando la mia pelle olivastra; me ne ero preoccupata poco, desideravo cancellare le tracce di quel brutto sogno, sembratomi così vero.

«Va tutto bene, Alexandra, sei al sicuro.» Mi ero ritrovata a sussurrare, mentre l'acqua scendeva sul mio corpo, scivolato contro il marmo della doccia e rannicchiatosi al suolo.

Il respiro era rapido, come se avessi appena finito di correre per ore, sapevo che quello era un sintomo di un attacco di panico. Mi sentii impotente, incapace di scacciare i pensieri distruttivi che infestavano la mia mente, i quali crepavano, con forza crescente, il muro di cemento che avevo eretto per proteggermi dagli attacchi. Eppure, da quando le mie mani avevano sollevato quelle foto e gli occhi ne avevano analizzato i dettagli, mi era sembrata una lotta contro un destino già segnato, in cui ero destinata a cedere, sotto le stoccate pressanti dei ricordi.

Basta, lasciatemi in pace, avevo sibilato nella mia mente, come se quello sarebbe bastato per placarli, ma loro avevano iniziato a battere con più forza, irremovibili, e l'incubo fatto quella sera non era altro che il presagio della mia caduta.

Non so se fu una fortuna o una sfortuna, ma, proprio in quell'istante, Dylan aprì la porta del bagno e mi vide nella doccia, piegata su me stessa, con lo sguardo vacuo e il corpo scosso dai tremori.

L'acqua era bollente, bruciava al contatto con il mio corpo nudo, non feci nulla per modificare la temperatura: se mi concentro sul dolore, smetto di rivedere i ricordi nella mia testa, avevo pensato, ingenuamente, mi sembrò di essere tornata al passato.

Dylan, consapevole di quello che mi stava accadendo, corse da me, incurante di star bagnando i suoi vestiti, e tentò di avvicinarsi tuttavia, non appena entrò in contatto con l'acqua, schizzò all'indietro. Cambiò il verso della manovella, poi, si inginocchiò, prendendomi dalle spalle e spingendomi contro il suo petto.

«Sono qui, va tutto bene.» Assicurò e le mie dita gracili si strinsero attorno alla stoffa della sua maglietta, ansimando pesantemente.

«L'hai sognata di nuovo, vero?» Mi chiese riferendosi a mia madre ed io riuscii solo ad annuire, mentendogli.

Per lui, ignaro di tutti i recenti avvenimenti, non potevo che aver fatto il solito brutto sogno il quale, seppur con meno frequenza rispetto a dieci anni prima, mi rendeva inquieta durante alcune notti. Nonostante avessi superato la morte di mia madre, rivedendo quelle immagini nella mia testa non riuscivo a rimanere indifferente. Inoltre, rispetto a quando ero una ragazza, l'incubo era cambiato, ora potevo osservare Ralf impugnare la pistola e spararle, mentre io ero bloccata sul posto, costretta da una forza superiore.

Un singhiozzo raschiò la mia gola, incapace di sopportare ulteriormente lo stress che opprimeva la mia mente.

«Alexandra, va tutto bene.» Dylan si prese cura di me, mi sentii tremendamente in colpa, perché gli stavo tenendo celate molte cose, tra cui, quelle foto e il loro presunto significato.

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