13. Nosate

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Alexandra

«Esatto, Elisey, oggi parlerò con i siciliani, sono venuti qui a Milano per gli affari.» Dylan stava parlando al telefono con il suo braccio destro e lo stava aggiornando su quello che riguardava il clan Morrison – Ivanov. Ormai, dopo il nostro matrimonio, la mafia russa e quella americana avevano stretto alleanza e ci occupavamo di gestire gli affari.

«Alexandra presenzierà all'incontro o andrai da solo?» Domandò Elisey, lo potei sentire poiché mio marito aveva attivato il vivavoce.

«No, Elisey, io non potrò esserci, ma non preoccuparti, lo accompagneranno i nostri uomini. Non faranno nulla, sono solo in cerca di un accordo, vogliono la nostra roba.» Non fui esplicita, la via telefonica non era sicura.

«D'accordo. E i napoletani?» Feci un mezzo sorriso.

«Hanno bisogno di protezione, al momento. Ci contatteranno presto, vedrai.» Chiarì Dylan, mentre gli sistemavo la cravatta; avrebbe potuto farlo da solo, certo, ne era capacissimo, eppure, da quando c'eravamo sposati, ci piaceva condividere certi momenti e prenderci cura l'uno dell'altra.

«La squadra A.M.?» Ci chiese, quella sigla stava ad indicare la squadra anti-mafia italiana.

«Un nuovo ispettore che crea scompiglio.» Spiegò Dylan in modo sbrigativo. «Ti ricordi del carico di roba, di cui ti avevo parlato, quello che doveva arrivarci?»

«Stai parlando dello stesso che hanno rintracciato e sequestrato?» Chiese Elisey, curioso.

«Esatto.» Confermò mio marito.

«Cazzo, sono proprio in una brutta situazione.» Ridacchiai, perché non aveva tutti i torti.

«Questa situazione, nonostante i soldi che abbia perso, gioca a nostro favore. Loro sono in debito e in difficoltà, una combinazione perfetta!» Esclamai a quel punto.

«Diamine, hai ragione. Siamo stati fortunati.» Asserì dall'altro capo del telefono.

«Fortunati o astuti?» Ghignai, lisciandomi il pantalone a palazzo nero.

«Di che parli?» Il tono di Elisey si fece confuso.

«Te ne parleremo quando saremo in America, Elisey, tu tieniti pronto per un viaggetto in Italia.» Concluse Dylan, poi, chiuse la chiamata.

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Dylan aveva lasciato la camera dell'hotel in contemporanea con me. Eravamo entrati nelle due macchine che avevamo noleggiato, ognuno diretto in posti diversi. Nemmeno per un istante i sensi di colpa mi avevano lasciato tregua, erano rimasti ad appesantirmi la bocca dello stomaco, ma non mi lamentai, sapevo di meritare quelle brutte sensazioni.

A bordo della Mercedes, accostai di fronte al grattacielo in cui abitavano Luke e Ian e attesi che lo spagnolo mi raggiungesse.

Quando entrò nell'abitacolo, si soffermò a guardarmi, attento a captare ogni traccia nel mio volto teso.

«Alexandra, se adesso andiamo in quel posto, non possiamo più tirarci indietro. Io ci sarò, a prescindere da tutto, eppure, è mio dovere chiederti, se sei davvero pronta.» Non lo guardai negli occhi, tenni lo sguardo puntato sulla strada che avevo davanti, nonostante l'auto fosse spenta. «Ehi, guardami.» Posò le dita sul mio mento e mi girò la testa verso di lui.

«Luke, ho bisogno di sapere la verità. Devo scoprire chi è il ragazzo delle foto e perché c'era scritta quella dannata frase.» Le nostre dita s'intrecciarono, mentre lui annuiva deciso.

«Va bene, allora, metti in moto.» Lasciai la sua mano e accesi la macchina, poi, partimmo verso Nosate.

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