5. Mattheo

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Mattheo

Faceva freddo quella sera. Piccoli brividi cospargevano le mie braccia, nonostante fossero coperte da una vecchia felpa. Non ci costringevano a usare alcuna divisa, fortunatamente; se avessi indossato la tuta arancione, come quella che si vede nei film, mi sarei sentito ridicolo e umiliato.

Lo sguardo puntava sul soffitto di quella piccola stanza. Lo osservavo spesso, tanto che, ormai, ero capace di distinguere la collocazione di ogni singola macchia; ad esempio, l'alone verdastro, dovuto alla muffa, si trovava nella parte destra, vicino alla finestra, mentre alcune chiazze nere e grigie spiccavano al centro.

Il braccio destro era piegato dietro la mia testa, a sostenerla svogliatamente, alcune ciocche brune, impreziosite da qualche raro filo biondo, ricadevano sul guanciale e sulla mia fronte, disordinate come sempre. Non mi guardavo allo specchio da un po', fatta eccezione per il riflesso nelle finestre, però, ero sicuro, che sul mio volto fossero evidenti i segni della stanchezza, di quel sonno che continuava a venir meno. Avevo delle borse scure sotto gli occhi, nei quali era difficile da non scorgere il luccichio di rabbia e rancore. Non riuscivo a mascherarli, quei sentimenti, che stavano corrodendo la mia anima; volevo tenerli per me, nasconderli nei meandri della mia mente, mostrarli solo a chi ne era colpevole, eppure mi sembrava impossibile contrastare la loro grandezza.

Mille pensieri stavano correndo nella mia mente, senza mai fermarsi o darmi il tempo di respirare e riposare. Loro m'impedivano di chiudere le palpebre e cercare rifugio nei sogni.

Spostai lo sguardo dal soffitto alla luna che splendeva alta nel cielo, oltre la finestra, illuminando con i suoi timidi raggi i muri grigi, i letti scomodi e il mio profilo rigido. Non ci volevo stare lì dentro, volevo respirare l'aria pulita senza sentirmi prigioniero, eppure nessuno faceva caso a quello che sentivo. Quel postaccio era divenuto la mia casa da un mese esatto.

Sto per impazzire, me lo sento. Avevo pensato. Avrei voluto colpire il muro di cemento che avevo accanto, nel disperato tentativo di scacciare via la rabbia, tuttavia rimasi immobile, trattenendomi. Un sospiro leggero fuoriuscì dalle mie labbra piene e rosee.

«Perché sei qui?» Pronunciò il ragazzo che credevo che stesse dormendo.

L'avevo portato lì quel pomeriggio, quando io non ero presente, me l'ero ritrovato tra le mura, steso sul letto inferiore, probabilmente consapevole che quello superiore avesse già un proprietario.

Non risposi alla domanda che mi aveva posto, preferii ignorarlo, grugnendo infastidito, come se avesse disturbato un sonno che, in realtà, non si era mai presentato.

«Io sono Harry, comunque.» Non comprese le mie intenzioni di stroncare la conversazione o, se lo fece, non se ne curò molto.

«Non me ne frega un cazzo. Chiudi quel fottuto buco che hai al posto della bocca.» Ringhiai allora, ponendomi sulla difensiva.

«Sta calmo, amico. Ho afferrato il concetto.» Sbuffò il ragazzo dalla pelle scura, fui contento di averlo zittito.

Mi voltai su un fianco, dando le spalle alla finestra, e chiusi gli occhi, sperando di cadere presto nel limbo dell'incoscienza.

****

Il risveglio che ebbi quella mattina non fu diverso da quelli che avevo avuto nei giorni precedenti. Raggiungemmo la mensa scortati, feci colazione con una semplice mela, poi, frequentai i corsi obbligatori,quelle sedute di gruppo che servivano a migliorare la condotta futura di noi giovani detenuti.

Quando giunse l'ora di pranzo, con il vassoio stretto tra le mani, mi accomodai a uno dei tavoli vuoti disposti nella mensa. Il cibo lì dentro era terribile, ma, per la mia salute fisica, sapevo che avrei dovuto mangiare qualcosa, dunque, con la testa poggiata contro il palmo della mia mano, ingoiai qualche boccone.

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