16 - Non sono pazzo, solo stanco

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"Caro diario, ti scrivo perché ho paura."

Guardai la frase per una manciata di secondi, in silenzio. Trovandomi davvero ridicolo. Cancellai quelle parole con uno scarabocchio, una grande macchia nera per nascondere quella frase che sembra stata scritta da una ragazzina in piena fase ormonale.

Cercando la scatola di sonniferi, in fondo al cassetto, avevo trovato un vecchio quaderno, il mio vecchio diario. Quando avevo sedici anni ero solito di tanto in tanto tenere un diario, ci annotavo i miei progressi nella danza, cosa dovevo migliorare e come dovevo farlo, le musiche, le emozioni che una coreografia suscitava in me. Ora ero rannicchiato sotto le coperte, nel mio letto, avevo in mano una penna e un quaderno, la mia testa era vorticante di pensieri.

Non avevo mai avuto bisogno di scrivere prima, non avevo mai avuto bisogno di sfogarmi. Mi bastava la danza. Ora senza di lei sentivo il bisogno di riempire un vuoto, spesso le mani mi fremevano impazienti, segno di un nervosismo e un grumo di emozioni indistinte di cui non riuscivo a liberarmi.

Osservai la pagina bianca eccetto per lo scarabocchio appena fatto sentendomi imbarazzato e impacciato. Avevo davvero bisogno di fare una cosa del genere per stare meglio?

"Penso che..."
Cancellai la frase allargando la macchia nera già esistente.

"Oggi io..."
Tirai di nuovo una riga scura con la penna.

"Mi piacerebbe un giorno tornare a ball..."

Prima ancora di completare la parola avevo già cancellato la frase. Girai pagina, non riuscivo più a guardare quello scarabocchio che nascondeva semplicemente quanto fossi imbarazzante e infantile. Mi venne in mente un libro che avevo letto in un libro diversi anni prima, la protagonista teneva un diario, ma scriveva in terza persona e quando le avevano domandato il perché aveva risposto semplicemente che questo le permetteva di pensare, di essere meno coinvolta nelle sue emozioni e di diventare più forte.

Imbarazzante.

Tuttavia strinsi la penna tra le mani e cominciai a scrivere.

"Fa male. Ci sono istanti in cui vorrebbe solamente morire, attimi in cui vorrebbe per la frustrazione squarciarsi il petto con un pugnale. Ma lui non è il personaggio di un libro, non possiede nè pugnali, né il coraggio per fare un gesto del genere. Quindi non può morire. Non resta che sopportare. Vivere un giorno alla volta, affrontando istante per istante. Hua Cheng oggi alla fine della lezione gli ha detto che ha prenotato una visita per domani e lui ha acconsentito. L'idea di vedere un altro medico gli da la nausea, un rifiuto profondo, eppure non può che essere speranzoso. Spera perchè non gli resta nient'altro da fare. E ogni parola che adesso sta scrivendo gli sembra vuota, priva di valore e di significato. Sono solo le parole di un pazzo che non ammette la sua follia. Le parole vuote di qualcuno che ha molto da dire ma non sa come farlo. Questo è solo un flebile tentavo di un'anima confusa che più parla, più si scopre priva di voce. Vorrebbe urlare, piangere, gridare ma ognuna di questa azione sarebbe forzata. Non ha niente per liberarsi di tutto questo, non ne è capace.
Non può fare a meno di ripetersi che non dovrebbe soffrire, quindi nasconde il dolore. È facile apparire felici, forti in mezzo alla gente. È facile nascondere la malattia, la fatica, la tristezza e i sogni a brandelli. E facile sembrare pazzi.
Non è pazzo, non completamente. È solo stanco, assonnato, vorrebbe solo fuggire via, poter fare una piccola vacanza dal suo corpo per un po', solo..."

Chiusi il diario di scatto e nascosi la testa nel cuscino, provavo un'immensa vergogna, mi sentivo come se qualcuno potesse vedermi in quel momento. Vedermi, leggere tutto ciò che avevo scritto e giudicarmi. Più scrivevo, più mi sembrava di scrivere di qualcun altro. Io non ero così, non ero così vittimista. Tiravo semplicemente avanti perché non c'era altro che potessi fare.

Nascosi il quaderno di nuovo in fondo al cassetto, pregai di dimenticarmi di nuovo della sua esistenza al più presto possibile. Chiusi il cassetto e mi rimisi a letto, le parole restarono lì, impresse sulla carta. Non le cancellai come avevo fatto con i tentativi precedenti. Forse erano vere, ma mi parevano forzate.

Parole vane di un uomo privo di sogni.

Chiusi gli occhi mi rannicchiai sotto le coperte, quella sera ero stanco, confuso. Avevo la mente in subbuglio e il corpo a pezzi e mi sentivo solo. Per un istante, un solo istante, fui tentato di chiamare Hua Cheng, giusto per sentire una voce amica e sentirmi meno soffocato dal silenzio opprimente che quella sera riempiva casa mia.

Poi accantonai l'idea, San Lang faceva già tantissimo per me, non potevo permettermi di infastidirlo e preoccuparlo ulteriormente.

Non stavo male, ero solo stanco.

Solo tanto, tanto stanco. Dovevo solo dormire. Rimasi sdraiato, immobile, in attesa del sonno. Ma chi volevo prendere in giro?

Stavo malissimo, ero al limite. Completamente. Sia fisicamente che mentalmente, odiavo le serate così. Mi misi seduto sul letto e afferrai il cellulare. Prima che la ragione potesse di nuovo frenare il mio istinto avevo già chiamato Hua Cheng. Il tu-tu del telefono aumentò il mio mal di testa. Ti prego rispondi in fretta. Non rispose, in effetti era quasi mezzanotte, forse stava dormendo, forse era impegnato in altro...

Appoggiai il telefono sul cuscino, non feci in tempo a sdraiarmi di nuovo, che ricevetti una chiamata. Il nome "San Lang" lampeggiava sullo schermo. Risposi immediatamente.

- Gege, va tutto bene?

Che domanda difficile. Rimasi zitto un istante. Dal brusio che sentivo intuii che Hua Cheng era in un posto affollato.

- San Lang...

- Gege stai bene?
Ripeté e io rimasi ancora zitto, non sapevo cosa rispondere. Non stavo bene, ma non volevo farlo preoccupare. Ero talmente stanco che non riuscivo a trovare una scusa per giustificare la mia chiamata a quell'ora.

- ...Sì, sto bene.
Sentii San Lang sospirare alla mia risposta. Non ero per niente credibile, la mia voce era un sussurro tremante.

- Sei a casa tua?

- Sì.
Mormorai.

- Arrivo, aspettami.

- No, aspetta San Lang non sto così male, non preoccuparti. Non serve che vieni.

Ti prego vieni.

- Vengo. Sarò lì tra dieci minuti.

- Sul serio, non serve.

- Gege, sembri sul punto di scoppiare in lacrime.

- Non... Ho solo la voce stanca.

- Ci vediamo tra dieci minuti.

Riattaccò, lasciandomi seduto al buio nella mia stanza con la bocca spalancata, completamente senza parole. Non mi aspettavo una simile conversazione. Rimasi immobile a guardare il vuoto, la mente troppo stanca per pensare lucidamente.

Dieci minuti dopo il campanello suonò.

A. A.
Questo capitolo è un po' pesante, ma mi è piaciuto da morire scriverlo. Spero vi si piaciuto almeno un po'. A domani.

Memorie d'autunno || HualianDove le storie prendono vita. Scoprilo ora