Capitolo Quattordici

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Febbraio 2012

Sei anni prima del 10 Aprile

Giacinto uscì dalla palestra, stiracchiandosi. Aveva appena finito una giornata fatta di scuola e di danza: finiva le lezioni alle 14.10 e di solito, se non aveva una mole esagerata di cose da fare per il giorno successivo, si fiondava in palestra. Ad aspettarla trovava sempre Alex e Stefi, che stavano confabulando su una coreografia, una lezione particolare o il montaggio di qualche canzone. Giacinto era particolarmente portata per la danza e si era formata una strana sinergia tra i tre ragazzi: Alex era a capo della scuola in tutto e per tutto, sapeva prendere anche le persone più difficili e questo gli aveva portato una grande ondata di stima. Stefi era la controparte di Alex, dolce e carina con tutti, piaceva a chiunque ed era un’ottima spalla per Alex. Nessuno mai l’aveva vista arrabbiarsi, cosa estremamente rara. Di tanto in tanto a loro si univa Andrea, che nonostante il carattere criptico e quadrato aveva un sacco di fantasia da poter dedicare a vari progetti. Partivano con gli allenamenti organizzati di giorno in giorno alle 15.00, mentre alle 17.00 iniziavano le lezioni. Aiutavano Alex con i bambini e i ragazzi più piccoli, e poi facevano lezione fino a tarda sera con i T.E.D., che già erano il gruppo di punta della scuola e si erano guadagnati una certa fama. 

Erano le 11.00, e Giacinto decise di accendersi una sigaretta insieme ad Andrea intanto che aspettavano Stefi insieme. Stefania aveva un sacco di qualità, ma fra queste della puntualità e della velocità non esisteva nemmeno l’ombra. 

“Possibile che sia sempre l’ultima” chiese Andrea, borbottando.

“Eddai, lo sai che è così” rispose Giacinto, aspirando del fumo. 

“Ma tutte le volte…” piagnucolò il ragazzo. 

“Tanto dobbiamo andare a casa mia, è qui dietro” disse la ragazza. 

Stefi uscì mezz’ora dopo dallo spogliatoio, con due borsoni di roba. D’altronde non era solo l’assistente di Alex, ma faceva anche danza moderna e classica. Un autentico talento per tutti i tipi di danza. 

“Io non mi capacito di quanta roba tu abbia lì dentro” rise Giacinto, osservando le borse. 

“E’ la mia piaga, non riesco a farci stare tutto in uno” spiegò stanca Stefi. 

Una volta recuperata lei e salutato Alex, i tre partirono alla volta della casa di Giacinto. La ragazza viveva in una ex cascina ristrutturata, con duemila metri quadri di giardino e una casa su due piani con varie stanze. Sembrava una reggia d’altri tempi. Sua madre di solito sapeva che al venerdì i ragazzi uscivano tardi, ed essendo Stefi e Andrea delle persone presenti a cena quasi ogni giorno, nonostante tornassero tutti alle undici e mezza di sera, lasciava sempre qualcosa da mangiare per loro. D’altronde Carlotta era una madre speciale: era dolce con chiunque incontrasse, ma sapeva mantenere i limiti e le regole con un’intelligenza sopraffina. Era una donna particolare. Era sempre animata da un’euforia contagiosa, tranne quando si arrabbiava. Quando si arrabbiava era meglio girare al largo. Leggende narrano che una volta, a causa di un documento mancato da parte dell’INPS, fosse andata fino all’ufficio del centro milanese per chiedere risposte e una volta non ottenute avesse fatto ribaltare qualsiasi cosa dalla polizia e dalla guardia di finanza. Quando sapeva di avere ragione, non c’era magistrato, ufficio o direttore che potesse impedirgli di arrivare dove voleva. 

I tre si misero a cenare con la pasta col pesto lasciata pronta da Carlotta, dopo di chè cominciarono a parlare del più e del meno, fumando erba e mangiando biscotti al cioccolato rimediati da un armadietto pieno di schifezze. Il fatto che la figlia fumasse erba non costituiva un problema per Carlotta. Sapeva che, anche impedendoglielo, la figlia lo avrebbe fatto di nascosto, quindi preferiva lasciarla fare e mantenere un canale di comunicazione aperto in caso fosse successo qualcosa. Aveva fiducia in Giacinto: si era sempre dimostrata una ragazza con la testa sulle spalle, nonostante i suoi vizi. Non una lezione o verifica mancata per divertimento o per le troppe canne della sera prima. Non un brutto voto. Eccelleva nello sport e non mancava mai di mostrare la propria educazione. Niente che potesse deluderla insomma.

“Facciamo un gioco” propose Andrea. 

“Tipo?” chiese Stefi. 

“Le capitali. Io propongo uno stato e chi indovina la capitale fuma” disse il ragazzo.

“Bello” rise Giacinto. 

“Per me non troppo, facevo schifo in geografia” obiettò Stefi. 

“Dai le facciamo facili” disse Andrea, rassicurandola. 

Era previsto che stessero solo un paio d’ore, in quanto la mattina dopo Giacinto e Andrea avevano scuola, mentre Stefi aveva appuntamento dal meccanico molto presto. 

La serata finì in realtà alle tre di notte, con i ragazzi in fissa. Avevano fumato un sacco a causa di quel gioco e non si erano accorti di averci passato sopra tre ore buone. Andrea e Stefi avevano gli occhi del colore del vino e una fame chimica da fare spavento, mentre Giacinto aveva solo l’aria placida. 

“Ma come cazzo è che ogni volta che fumiamo come le ciminiere noi due siamo distrutti e te non fai una piega?” chiede Andrea a Giacinto. 

La ragazza fece spallucce. 

“Credo di avere una specie di tolleranza alle tossine” disse solo. 

Stefi e Andrea non avevano alcun dubbio: da quando aveva cominciato ad uscire con loro, non c’era mole di erba che potesse abbatterla. Se avesse bevuto due spritz al bar e sarebbe partita per la tangente, ma con l’erba e il fumo non c’era verso. Era una macchina da guerra. 

“Dio che invidia” dissero solo i due ragazzi, guardandola. 

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