La notte era placida e profonda in quel quartiere agiato dell'Ohio, dove vi perdurava un silenzio a cui facevano da piacevole sottofondo i versi dei grilli, conciliatrori di un ambito sonno ristoratore. Le schiere di villette indipendenti, spente e serrate nella loro tranquillità, celavano le decine di vite al loro interno, che affidavano a Morfeo i loro sogni, il loro riposo, le loro aspettative per il giorno dopo. La penombra dei lampioni sfiorava delicatamente la camera da letto di una delle case, adornata da poster di supereroi, pupazzi e videogames. In un angolo, la lucina intermittente di un vecchio computer in stanby, illuminava una sedia su cui vi erano poggiati alla rinfusa diversi indumenti, probabilmente messi lì col proposito di sistemarli in un secondo momento.
Una busta vuota di patatine oscurava l'orario di una sveglia digitale, sita sul comodino accanto al letto. Una mano si sporse timidamente dalle lenzuola per spostarla, scoprendone l'orario. Erano le 4.45.
"E' ancora presto" pensò un ragazzo ancora assonnato. Si rigirò nel letto, cercando una posizione comoda per riprendere a dormire, nella speranza che quell'indesiderato risveglio durasse poco. L'ora dei doveri giaceva in una promessa ancora lontana, che prendeva vita ogni giorno alle sette: il giovanotto si sarebbe alzato, avrebbe conteso il bagno con suo fratello e cominciato a lavarsi; poi colazione, autobus, scuola, infine la speranza di finire presto i compiti per strappare al tempo due tiri di pallacanestro nel giardino di casa, prima di essere chiamato da sua madre per la cena. Tutto normale. Un solo velo d'ombra e paura si insinuò nella sua mente: i bulli della scuola che frequentava. Ogni giorno trovavano modo per importunare ragazzini come lui, e ogni giorno lui si alzava dal letto con gli stessi interrogativi: "Oggi cosa mi faranno? Mi beccheranno di nuovo?" Non aveva avuto la forza di parlare con i suoi genitori o con suo fratello, né tanto meno con i suoi insegnanti. Perché mai avrebbe dovuto? Per dimostrare a tutti di essere una femminuccia, proprio come gli dicevano a scuola mentre lo pestavano dietro un cortile, o nei cessi dopo avergli rubato i soldi del pranzo? Doveva sopportare e sperare che le cose cominciassero ad andare meglio, che quei ragazzi trovassero un altro modo per divertirsi, poco male se doveva fare i conti con l'angoscia di trovarseli davanti, o con una rabbia così intensa da spaventare se stesso quando lo sorprendeva.
Ancora assorto nei suoi timori, guardò la finestra della sua camera, e notò che era aperta. Gli venne in mente che a svegliarlo furono proprio le leggere folate di vento e freddo. Si alzò dal letto, sperando di non beccare un malanno; il ragazzino fece per chiuderla, quando spostò l'attenzione alla sua immagine riflessa nello specchio dell'armadio, sito proprio vicino alle imposte. Si guardò per pochi istanti. A giudicare dall'altezza e dall'aspetto, sembrava più grande dei tredici anni che aveva: stava crescendo, e il suo sguardo di ghiaccio, unito al suo incarnato non troppo chiaro e ai suoi capelli castani, erano promessa di una bellezza mascolina e sfrontata che entro pochi anni sarebbe emersa, ma ciò lui non poteva immaginarlo, preso dalle sue insicurezze adolescenziali, contornate di paura e da qualche brufolo di troppo.
Si voltò, attratto da un rumore che aveva udito dall'altra parte della stanza. Credendo che qualcosa fosse caduto da una mensola, visto il disordine in cui riversava camera sua, si recò in direzione del suono, ma non trovò nulla. Guardò sotto al letto, per assicurarsi che non ci fosse finito niente. Quando si rialzò, fu sorpreso da un altro colpo di vento: la situazione cominciò a sembrargli strana, non aveva appena chiuso la finestra? Andò di nuovo verso le imposte, stavolta lentamente, perché cominciò a temere di non essere solo in camera. Diede uno sguardo veloce in giro, e comprese di essere solo. Scrollò il capo dandosi dello stupido, si riavvicinò alla finestra, assicurandosi di averla chiuse per bene. Guardò fuori la sua finestra, ammirando per un lieve momento la luna che faceva capolino da nubi che non promettevano bel tempo. Quando fu sul punto di voltarsi, un grido gli morì in gola: al posto di quella che avrebbe dovuto essere la sua immagine allo specchio, vide un mostro dalla faccia bianca e traviata, con le guance solcate da grossi tagli da cui grondava sangue, e gli occhi cerchiati di nero, quasi privi di palpebre. Ma ciò che lo atterrì maggiormente di quell'essere fu il suo sguardo inquietante, divertito, spento e folle, che traspariva da quegli occhi così simili ai suoi e così diversi al tempo stesso.
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Più del suo pugnale. (Jeff the Killer)
FanficLui: un assassino seriale, sfuggito alla giustizia per diciasette anni. Lei: una giovane costretta a fare del suo corpo una merce. Entrambi reietti (seppure per diversi motivi), sopravvivono in quello stesso mondo che li ha partoriti per poi rinnega...