2 - Biblioteca

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Quel pomeriggio non avevo nulla da fare, perciò decisi di recarmi alla biblioteca. L'autobus ci mise tanto ad arrivare, e quasi mi passò la voglia. Entrai, salutando la donna dietro al bancone, e mi recai nella sezione 'Narrativa Storica', cercando qualche volume nuovo. Un libro verde, appena tolto dalla confezione, si stagliava nella mensola più alta. Mi allungai fino a stirarmi il braccio, ma i polpastrelli riuscivano solo a sfiorarne il dorso. Prima che potessi voltarmi per prendere una scala, una mano decisamente più in alto della mia comparve ed afferrò il libro. Mi voltai, grata dell'aiuto, per trovarmi il maschilista in nero che osservava la copertina e ne leggeva la trama.

«Ci sono un sacco di forzature storiche qui», constatò. Poi si strinse le spalle, alzò gli occhi scuri e sorrise. «Grazie per il suggerimento», disse sventolandomi il libro sotto al naso. Andò al bancone della bibliotecaria, esibendo una tessera nuova di zecca: lo dimostrava il fatto che non fosse sgualcita, usata, come quella nel mio portafogli. Lo inseguii marciando. «Non puoi», ringhiai sottovoce quando si stava dirigendo all'uscita.

Lui alzò un sopracciglio. «Eppure, guarda qua», disse mostrandomi la prima pagina del volume, dove vi erano annotati i nomi di chi lo aveva preso in prestito: l'ultimo, in grafia elegante, recitava "Alexander Valentine". Sorrise sfacciato ed uscì, mentre io lo seguivo ancora infuriata. Avevo letto ogni singolo libro di quella minuscola biblioteca, e lui non poteva piombare e prendere l'unico che non avessi mai preso in prestito!

Si diresse verso una jeep nera fiammante, con i finestrini oscurati, mentre io mi bloccavo in mezzo al marciapiede. La pioggia aveva cominciato a cadere in modo insistente, quando ero al coperto. Non avendo un ombrello, e non essendoci un tettuccio alla fermata dell'autobus, decisi di lasciar perdere l'inseguimento, nonostante la rabbia non fosse svanita. Prendermi un raffreddore per uno del genere non mi pareva il caso. Presi la direzione opposta e mi incamminai verso la mia meta, mentre tiravo su il cappuccio e cercavo di non far bagnare la borsa di tela. La aprii, prendendo il cellulare e salvandolo dall'annegamento, finché non mi accorsi che non pioveva più. Volsi lo sguardo in alto, ma un pezzo di tela nero si era messo fra me e l'acqua che cadeva. Mi girai, per osservare Alexander Valentine tenere l'ombrello, mentre mi osservava con quegli occhi dannatamente scuri.

«Ti ammalerai così», constatò.

Ed il premio per l'osservazione più utile va a...

«Vuoi un passaggio?», chiese interrompendo il flusso dei miei pensieri. Non potei fare a meno di aprire la bocca. Che mi ero persa? Quella mattina aveva tentato di uccidermi, poco prima mi aveva rubato il libro ed ora mi offriva di accompagnarmi a casa? Già, a casa. Meglio non fargli sapere dove abitavo, magari era pericoloso.

«No», dissi in tono distaccato, facendo un passo indietro ed uscendo dalla nera ala protettiva dell'ombrello.

Ecco lì, lo sguardo freddo con cui pensava di incenerire il mondo. Cominciavo a preoccuparmi: dieci secondi e già non mi guardava male.

«Fa' come ti pare, femmina», disse per poi voltarsi e tornare alla jeep nera.

Mi affrettai ad avvicinarmi alla fermata, ma l'autobus che dovevo prendere mi passò davanti alla massima velocità. Sbuffai. Se quell'idiota non mi avesse trattenuta, forse non sarei tornata a casa tardi, per di più zuppa. Probabilmente era quello il motivo di quella richiesta quasi gentile: farmi tornare a casa tardi. Una specie di vendetta per non essermi fatta trascinare chissà dove quella mattina.

Dopo quarantacinque minuti sotto l'acqua scrosciante, un altro mezzo passò. Salii e mostrai la tessera di abbonamento al conducente, per poi buttarmi su un sedile tra i tanti vuoti. Arrivata alla mia fermata, scesi e mi avvicinai in veranda: quel giorno c'era la cena con i nuovi vicini. Suonai, non intenzionata a mettere le mani nella borsa zuppa, e aprì mio padre. Mi squadrò: scarpe di tela bagnate, jeans più scuri a causa dell'acqua e giacchetto leggero che aveva visto tempi migliori – tipo prima che cominciasse quello che era un diluvio ormai. Mi fece cenno di affrettarmi, ed io scivolai accanto a lui per poi correre per le scale e fiondarmi in camera mia. Gli ospiti erano già arrivati, a giudicare dalle chiacchiere che sentivo provenire dal salone. Mi spogliai, mettendo i jeans strappati e la felpa nei panni sporchi, ed entrai nella doccia. Ero in ritardo, ma il getto d'acqua calda veniva prima di tutto, in quel momento. Dopo essermi rilassata per bene e dopo aver domato ed asciugato i ricci neri, indossai una maglietta un po' troppo attillata per i miei gusti. Preferivo sempre portare vestiti larghi, insicura come ero sul mio corpo. Nonostante l'indumento fosse semplice – normale, per le mie coetanee – a me non piaceva per nulla come fasciava il seno. Volgare, ecco. Non ebbi molta scelta per i jeans: mia madre era indietro con la lavatrice, e l'unico paio pulito erano classici jeans azzurri. Valutai mentalmente l'idea di fingermi malata e non scendere, ma poi ricordai il caratteraccio della mia genitrice. Era sempre scontrosa con me, e mi addossava ogni colpa.

«Se non fossi nata», aveva detto una volta, «ora non sarei qui a lavare i piatti». Non si possono dire certe cose ad una dodicenne. Da allora avevo troncato ogni rapporto non necessario con lei.

Scesi, sperando che la serata finisse presto. Nel salotto era già tutto apparecchiato, e mia madre aveva già servito il primo. Non mi degnò di uno sguardo, mentre mio padre sorrise e mi presentò «Ecco mia figlia, Victoria. Vogliate scusarla per il ritardo, ma i mezzi in questa città sono tremendi!».

Mi sedetti al mio posto, per poi allungarmi a stringere la mano alla coppia di fronte a me. Avevano entrambi i capelli neri, ed occhi così scuri da non esserci distinzione fra iride e pupilla. Il loro unico figlio era in bagno, al momento, e mi chiesero se potevo dargli una mano per ambientarsi a scuola.

Si chiamavano Wladimir e Cordelia Valentine.

E ti pareva.

Deimon - La corte del DemonioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora