2💖 *Come Meredith e Cristina* 💖

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La prima immagine nitida che ho della mia infanzia risale a tanto tempo fa.

Non ricordo quanti anni avessi di preciso, ma abbastanza da saper parlare bene, perché durante una cena di famiglia qualcuno suonò al campanello e mamma mi disse di andare a rispondere per vedere chi fosse. Lo feci, anche se conversare con gli estranei mi inibiva, a maggior ragione se non potevo guardarli in faccia. Infatti, quando dall'altra parte del citofono mi dissero di passargli Edoardo, mi venne il panico. A casa mia nessuno si chiamava Edoardo!

Mi si bloccarono le parole in gola, non avevo idea di come rispondere e nell'arco di mezzo secondo mi si dipanarono nella mente i più svariati scenari: posso riattaccare, ma sarei scortese. Mamma e papà dicono che devo essere gentile con tutti. O beh, quasi tutti. Un'altra opzione è chiedere quale Edoardo stanno cercando. Quel cugino di mamma non si chiama Edoardo? E se gli dico che non lo conosco ma in realtà lo conosco?

Insomma, ero entrata in palla.

Alla fine mormorai che avevano sbagliato casa; ma il bello venne subito dopo, quando agganciai la cornetta e feci il dito medio in direzione del citofono. In realtà, quel dito medio lo stavo facendo allo sconosciuto per strada. Sconosciuto con la o finale, quindi un maschio: da questo episodio cominciai ad avere timore non solo degli estranei ma anche degli uomini.

Il mio rifiuto verso gli uomini, in realtà, risale a quando non sapevo ancora neppure camminare, a quel pomeriggio in cui il pediatra mi sollevò la maglietta per auscultarmi il cuore e io iniziai a urlare finché non mi tolse le mani di dosso.

Con la pediatra, invece, non avevo problemi: sorridevo, giocavo, stavo calma, forse perché, nonostante fossi ancora troppo piccola per capire la differenza tra uomo e donna, sentivo nelle sue mani una dolcezza che l'uomo non possedeva.

Il maschio era troppo serio e silenzioso, la femmina mi cantava le canzoncine e sorrideva. Il maschio era sbrigativo, invece la donna era dolcissima.

Insomma, l'episodio del citofono che avvenne qualche anno più tardi servì solo ad acuire il timore che provavo nei confronti del genere maschile.

La mamma diceva che la vita era dura, che dovevo imparare a cavarmela da sola e che non avrei mai vissuto bene se non avessi preso coraggio nel parlare con la persone, al telefono e dal vivo.

Dovevo diventare indipendente.

«È importante essere indipendente nella vita, Luana» ripeteva continuamente come una cantilena.

Indipendente. Indipendente. Indipendente.

Una parola che ben presto cominciai a sognare anche di notte...

~•~

Io ero di una sensibilità e di una timidezza fuori dal comune.

Fin dalle scuole materne mi schieravo a favore dei bambini emarginati e tendevo a isolarmi dal gruppo dei forti.

Se c'era un 'diverso', o qualcuno che veniva deriso, era sicuro che io ci avrei fatto amicizia. Stavo sempre lì, con gli emarginati, i più deboli, gli esclusi.

Alle scuole elementari tutti prendevano in giro Amanda, e allora io andavo da lei per chiederle di giocare insieme. Le altre mie amichette mi raccomandavano di starle alla larga perché aveva la pelle scura. Amanda non era Italiana, quindi era diversa, quindi io non dovevo giocarci.

Ma a me non importava. Io giocavo con Amanda tutto il giorno e mi divertivo tantissimo. Per me non aveva nulla di diverso rispetto alle altre bambine.

Mamma e papà non riuscivano a spiegarsi il mio comportamento nei confronti di Amanda. Trovavano strano il fatto che provassi vergogna nel parlare al telefono con gli estranei ma che allo stesso tempo fossi così spigliata nel fare amicizia.

Quando il vento mi accarezzò la pelle Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora