Mi pulisco la bocca con il dorso della mano per togliere i residui di vomito che mi sono rimasti attaccati sulle labbra.
Il liquido giallastro rigettato nel water è una massa informe di materiale indecifrabile che mi fissa dal basso, mentre io sono piegata in due, la mano sinistra appoggiata sul muro e la destra tra i capelli.
Ormai non sento neanche più la puzza: si è permeata nell'aria, nel naso e nei polmoni, come i ricordi che tornano a fare visita nei momenti più impensati, portandosi dietro recriminazioni, sensi di colpa, infelicità, e che smettono di fare male solo quando col dolore, una persona, comincia a farci il callo.
Che senso hanno le recriminazioni se non si può tornare indietro nel tempo per cambiare le cose e farle andare diversamente?
Non vorrei abituarmici alla sofferenza, ma lo so perché me lo sento ovunque -nelle ossa, nella testa, nelle bugie- che il dolore sta cominciando a diventare normalità. I giorni si alternano tutti uguali, ignorati, estremamente lenti. Asfissianti. E io non sono più capace di progettarne uno. Figuriamoci il futuro! Invento escamotage per andare avanti, solo per andare avanti e non sprofondare nel baratro.
Il cuore mi galoppa nel petto come un cavallo imbizzarrito. Riesco quasi a sentirlo: bom bom bom bom, va velocissimo e non è un suono piacevole.
Per regolarizzare i battiti devo inspirare ed espirare a fondo due volte. Poi valuto se è meglio rimanere piegata in due nel caso si ripresenti una nuova scarica di vomito, o mettermi dritta e andare via.
Alla fine è il cellulare a decidere per me.
Leggo il messaggio della signora rosa: "Ti sto aspettando in macchina, cara".
Ho perso di vista il tempo. Ormai è lei ad accompagnarmi a casa quando non c'è papà.
Con fatica, ignorando le vertigini, mi metto dritta e scarico la cassetta.
Il liquido giallastro turbina nel gabinetto come un miscuglio di cibo ridotto in poltiglia da un frullatore. Questa volta il tanfo del vomito mi arriva dritto nel naso. Trattengo un conato con un mano.
Non è il momento, devo andare via.
La differenza fra aria sporca e aria pulita mi fa capire che abituarsi al dolore, in fondo, non è una scelta, ma la conseguenza di chi non ha più alternative e di chi non sa cosa inventarsi per ritornare a essere felice come un tempo, quando bastava poco per sorridere e per emozionarsi.
Perché solo un pazzo si rassegnerebbe a vivere in un ambiente tossico senza una buona motivazione.
Trattengo il respiro e spalanco la porta con talmente tanta forza che sono costretta a fermarmi per non andare a sbattere contro la prof. di figurazione.
Faccio scorrere lo sguardo sul suo viso, mettendone a fuoco i lineamenti morbidi, i grandi occhi castani e le labbra carnose. «Cosa vuole?»
Ricambia il mio sguardo perplesso. La lunga cascata di capelli neri le incornicia la faccia rotonda dalle fattezze stranamente fanciullesche. «Luana»
«Cosa ci fa qui?» La voce mi esce bassa e rauca e per un momento credo quasi di essere sul punto di soffocare.
«Cosa succede? Stava andando tutto bene e...» lascia cadere la frase. «Stai bene? Hai bisogno di qualcosa?»
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Quando il vento mi accarezzò la pelle
Tiểu Thuyết Chung© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...