Una mental coach specializzata in crescita personale e controllo delle emozioni ci ha proposto un test, stamattina a scuola.
Domanda numero uno: "cosa fai se qualcuno ti spinge mentre stai scendendo dal pullman?": A) Urli B) lo inviti a fare attenzione C) fai finta di niente.
Se rispondi 'A' sei aggressivo. 'B' assertivo. 'C' passivo.
Io ho messo la crocetta sulla C, anche se avrei voluto avere a disposizione una quarta opzione, la D: «faccio finta di niente, ma dentro urlo.»
A me non serve scendere dal pullman per essere spinta. Capita già a scuola. Qualche giorno fa uno di quelli col rolex mi ha strappato i libri dalle braccia. Mentre mi abbassavo a raccoglierli ho sentito che rideva, ma ho fatto finta di niente.
La mia mente si bugga, forse perché i pensieri corrono più veloci delle parole. So cosa voglio dire, ma non riesco a esprimerlo in tempo: tutto è già finito.
Siamo sepolti nella bara delle nostre emozioni, e quando c'è una novità, la gente impazzisce. Il compito sul disgusto ha scatenato un delirio collettivo. Per due settimane, tutti non fanno altro che parlarne. Molti hanno già scelto il loro tema. Io, invece, non so da dove cominciare. In corridoio mi sento un'estranea e vorrei tapparmi le orecchie, spegnere quei sorrisi idioti e urlare: «È solo un compito! Perché siete così felici?»
Per fortuna l'opzione D arriva in mio soccorso. Ma la verità è che il giorno della consegna sono l'unica a non sorridere, a non avere in mano un cartoncino, un modellino o una lavagnetta. Un'estranea con le mani vuote, l'opzione D in testa e ricurva sul banco. Ascolto gli altri spiegare i loro lavori sul disgusto. Scarafaggi, cibo avariato… nulla di originale. Quando tocca a me, dico alla prof che ho bisogno di più tempo. Lei mi dà due giorni, che non sono pochi, ma per fortuna non sono neanche tanti e con un po' di fortuna passeranno in fretta.
Il pomeriggio, seduta in cucina con una matita tra le mani, fisso il foglio bianco, aspettando un'ispirazione divina.
Non so come dire a mamma che ho preso tre all'interrogazione di filosofia.
La sensazione è come quella che provo quando voglio urlare e qualcuno mi tappa la bocca e non mi escono suoni.
Eccomi: sto urlando, il mio silenzio sta urlando, ma nessuno riesce a sentirmi.
Perché la mano è invisibile...
~•~
«Luana» dice la prof, mostrando il mio disegno alla classe. «Spiega ai tuoi compagni perché questo rappresenta per te il disgusto»
«Devo proprio?»
«Certo» sorride per incoraggiarmi. «Non hai alcun motivo per vergognarti»
«Ok» Mi rivolgo ai miei compagni di classe, che mi guardano come se fossi un aliena sbarcata da Marte. «Nulla. Questa è una bocca cucita con del filo spinato e rappresenta quel momento che...» faccio una pausa, mi sposto i capelli dietro l'orecchio e mi mordo le labbra. «...quel momento in cui abbiamo voglia di dire qualcosa ma ce lo impediscono e poi, come effetto collaterale, non abbiamo più voglia di dire niente. Beh, questo mi fa venire il disgusto. Qualcuno che ha la capacità di zittirti è disgustoso, soprattutto se sei sempre stata una persona che se le mangiava, le parole, per quante te ne uscivano dalla bocca. E...» Mi sento soffocare. «Scusate, un attimo...»
Scappo via ansimando, i polmoni che trattengono più aria di quanta ne riescano a espellere. Provo a regolarizzare il respiro seguendo gli esercizi che mi ha insegnato mamma, ma fa male tutto.
Sento la campanella. Le classi si svuotano e io rimango immobile nella calca. Qualcuno ride forte alle mi spalle. Una risata che mi scava lo stomaco in profondità, come una zappa bollente.
Samuele esce fuori dalla classe insieme a Daniele e Mattia e io, dopo un istante in cui rimango ghiacciata dall'indecisione, indietreggio a piccoli passi fino a sbattere contro la parete gelida, che attutisce la botta provocandomi un brivido di freddo lungo la spina dorsale.
I suoi gesti, il suo sorriso e le sue espressioni mi appaiono innaturali, ovattate, sbagliate, smorfie grottesche da cancellare con la gomma e da disegnare da capo su un viso più pulito, meno sporco.
Magari a forza di cancellarle, spariscono per sempre....
Tutti e tre parlano. Mi passano davanti, ma troppo lentamente. Vedo le loro bocche muoversi, ma alle mie orecchie giunge solo un ronzio, come quello che fanno le televisioni quando si guastano. Forse a essere rotta è la mia mente. "Zzzzz! Zzzz!" sento. "Zzzz! Zzzz! Zzzzz!"
Ridono assorbiti da chissà quali chiacchiere. Calcio o ragazze? Compiti o svago? Magari l'ennesima festa a cui parteciperanno stasera. Chi può dirlo.
Faccio un sospiro di sollievo perché lui è talmente preso dalla conversazione da non accorgersi della mia presenza, di questo piccolo scricciolo schiacciato contro il muro che lo guarda spaventata e pensa: continua a camminare, fai finta che non esisto. Ti prego, ti prego, ti prego.
Infatti cammina. Diciotto anni, ma già così alto, già così uomo, con quell'aria temibile in faccia, quell'aria vissuta come se ne avesse trenta. Lo seguo con lo sguardo mentre raggiunge la fine del corridoio. Schiena larga, zaino su una spalla, passi sicuri. Inspiro ed espiro, ripetendo come un mantra: "Continua a camminare, fai finta che non esisto, continua a camminare, fai finta che non esisto."
Ma proprio un attimo prima di svoltare l'angolo, si gira. E in quell'istante sento il mio cuore sgretolarsi, fare crack come se si fosse rotto. L'aria rientrarmi nei polmoni con violenza, risucchiata dall'esofago fino all'ultima stilla e trasformata in succhi gastrico corrosivi.
Corro in bagno per non vomitare qui davanti a tutti.
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Quando il vento mi accarezzò la pelle
Fiksi Umum© 𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝘁𝗶 (𝗔𝗹𝗹 𝗿𝗶𝗴𝗵𝘁𝘀 𝗿𝗲𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲𝗱) Qualsiasi riproduzione dell'opera, totale o parziale, è vietata e punibile dalla legge. «Rifugiati nelle immagini felici per ritrovare la bellezza che hai perso...