CAPITOLO 10

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MIHAI

Dodici anni prima...

Non sapevo bene cosa mi attraesse in quella ragazza di soli sedici anni eppure non potevo fare a meno di continuare a guardarla e pensare che volevo scoprirlo, volevo sapere cosa ci fosse in lei che mi intrigasse a tal punto da cercarla di continuo, da voler che conoscesse cosa si provasse ad essere liberi e a tirar fuori la ragazza che avevo visto quella sera. Quella donna menefreghista nei confronti delle noiose e intransigenti regole a cui la sottoponevano giornalmente da quando aveva esalato il suo primo respiro. Forse era un'impresa impossibile, quel pensiero continuava a torturarmi in ogni secondo, probabilmente stavo solo perdendo tempo eppure qualcosa dentro di me, mi diceva che ogni attimo passato accanto a lei era tutto tranne che perso, buttato. Più la guardavo, o meglio, più la ammiravo e più sapevo che se dovevo impormi un obiettivo che rendesse vivo le mie giornate sarebbe stato proprio quello di liberare quella ragazzina dalla sua gabbia, dal suo carcere familiare. L'avrei resa la versione migliore di se stessa, a costo di andar contro a chiunque. Iniziavo a prendere quella sua condizione di clausura come un mio stesso problema e forse perché in qualche modo, anche se in versione differente, sapevo cosa si provasse quando la gente tentava di tapparti le ali, legarti ad uno stereotipo che censurava ogni tuo sogno futuro. Conoscevo quanto fosse fastidiosamente doloroso vedere che gli altri si prendevano il diritto di scegliere al tuo posto.

Ero nato in un paesino in Moldavia dove vi era poco e niente. Mille abitanti se non qualcuno di meno, dove tutti conoscevano la mia famiglia proprio perchè essendo in pochi tutti si conoscevano, un paesino distante dalla città e dal resto del mondo dove la vita era decisamente migliore per gli altri. Lì dove qualsiasi tua ambizione futura era azzerata dalle persone che ti ridevano in faccia appena facevi cenno a qualcosa di più ambizioso di fare il fruttivendolo, qualcosa di più importante di fare il negoziante. Io volevo splendere e mostrare al mondo intero quanto contasse per me la musica, desideravo che quel misero strimpellare che facevo nascosto in camera mia diventasse un susseguirsi di note accompagnato da delle parole. Necessitavo che quegli ultimi messi insieme divenissero una canzone che tutti ascoltavano, provando quei brividi che provavo io stesso all'idea di esibirmi di fronte al mondo. Il mio era un sogno ma non mi ero arreso all'idea che rimanesse tale, così avevo speso ogni goccia del mio stesso sudore, ogni mio gemito di dolore e ogni urlo di rabbia per far sì che io riuscissi ad aggrapparmi alla mia più grande ambizione.

Dire di esserci riuscito per me era ancora qualcosa di impossibile, a stento ci credevo e poi odiavo dover recludere un momento tanto catartico mettendogli un punto. Per me ammettere di esserci riuscito sarebbe stato come il finale di una storia, un lieto fine susseguito da un punto. Ecco io quel punto non lo avrei mai voluto mettere e mai lo avrei messo. Io non avevo fine, la mia firma sarebbe rimasta impressa all'infinito.

Ed era ciò che volevo inculcare nella mente di quella ragazzina. Nessuno poteva esercitare su di lei un potere pensando di possedere qualche diritto del cavolo, diamine era lei la proprietaria della sua vita, mica uno di quei ricconi scansafatiche che la circondavano. Se pensavano che avrei lasciato Keira alle loro menti fastidiosamente arretrate e ai loro comportamenti da dominatori sessisti si sbagliavano di grosso, sarei persino potuto arrivare a rapirla per portarla via a quella classificazione maschilista che metteva l'uomo alla punta del controllo e la donna al fondo, come una macchina usata unicamente per la bellezza e il sesso. Eravamo esseri umani in un mondo dove di onnipotente non vi era veramente nessuno, ogni giorno era un regalo inestimabile e perderlo per declassare gli altri era solo una perdita di tempo. E questo era ciò che desideravo far capire a tutti. Bisognava regalare gioia se gioia si voleva avere, o lo zucchero che dava dolcezza alla tua vita alla fine si sarebbe rivelato un cumulo di sale.

Se quella ragazza avesse capito che non era inferiore a nessuno, avrebbe finalmente capito che stringeva il mondo in mano ed io l'avrei aiutata volentieri ad arrivarci. E mentre la mia mente vagava altrove, i miei occhi erano ben fissi su di lei che intanto rideva con quell'ingenuità che tanto mi attraeva di lei. Tutti desideravano crescere in fretta, lei invece sembrava volersi godere quegli anni quando le veniva concesso, non aveva alcuna fretta. E i suoi gesti infantili, la sua risata fanciullesca, tutto di lei mi ricordava una bambina. Una piccola reginetta a cui spettava di diritto la sua corona della libertà.

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