1. Mura

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Novembre, 1981

L'impatto con il pavimento di pietra gli fece inarcare la schiena. Gemette e mormorò un insulto, alzandosi a sedere e poggiando la testa contro altra pietra. Rabbrividì al contatto e si diede una veloce occhiata attorno.

Quel posto era dannatamente umido, le pareti sembravano fatte di carta velina eppure erano infrangibili, stabilissime. Gli spifferi superavano la casacca leggera e si insinuavano fin sotto la pelle, fino a raggiungere le ossa.

Quel posto puzzava da morire. Non riusciva a capire se fosse urina, vomito, muffa o un mix di tutti e tre. Si chiese come avrebbe resistito... be', per sempre.

Quel posto era Azkaban.

Alzò una mano a sfiorarsi una tempia e quando la ritirò e la esaminò trovò le dita sporche di sangue. Inarcò un sopracciglio e si guardò attorno. La luce gialla del tramonto entrava a striscioline tramite una serie di finestre intagliate nella roccia, infrangendosi brillante sul pavimento.

Sirius la osservò, umettandosi le labbra secche e puntando poi lo sguardo su una catena dagli anelli robusti che riposava alla sua sinistra. Udì un click sinistro, un attimo prima che questa si trascinasse magicamente nella sua direzione. Strisciò con un rumore metallico sulla pietra e gli si arrotolò a una caviglia.

Si ritrasse appena, a contatto col ferro gelato. Espirò tremante e deglutì a fatica, poi alzò le ginocchia al petto e vi ci poggiò i gomiti, lasciando passare le mani nei capelli e schioccando la lingua, amareggiato. Ne udì l'eco.

La gola gli bruciava per il troppo urlare e la testa gli pulsava per la ferita al viso. Sentiva i muscoli indolenziti per l'impatto e per averli sentiti cedere troppo spesso nelle ultime ore.

Era lì da meno di cinque minuti e già sentiva un'unica, dilaniante emozione dibattersi per aggiudicarsi il primo posto: la disperazione. La più totale, disarmante disperazione. Quel luogo ne era intriso, sembrava sussurrargliela direttamente nell'anima.

La testa gli si caricò di informazioni note e dolorose, le associava a tutto ciò che di terribile aveva vissuto nella sua vita.

Era avvenuto tutto in un attimo, negli ultimi tempi. C'erano un sacco di cose che non aveva fatto in tempo a fare e a dire. In realtà, a dirla tutta, c'erano un sacco di cose che non aveva avuto modo di registrare. Iniziò a sudare e il cuore prese a martellargli nel petto con la pesantezza della sua realizzazione: aveva tutto il tempo del mondo per mettersi a pensare e questa era una cosa che non era mai girata in suo favore.

Mai, neanche una volta.

Batté un pugno contro il muro di pietra e represse un gemito di dolore. Gli occhi presero a saettare da un lato all'altro della stanza e comprese in un attimo che quelli erano gli unici metri della sua libertà, che non avrebbe mai più visto altro al mondo che non fossero quelle mura e quelle sbarre e il suo dolore, che non solo avrebbe iniziato a poco a poco a dimenticare i visi delle persone che aveva conosciuto, ma che avrebbe finito per non ricordare più neanche il suo, che se glielo avessero mostrato l'avrebbe preso per un passante.

Si alzò in piedi e lasciò scorrere le dita tra i capelli, frustrato, poi tornò a sedersi e si concentrò.

Chiuse gli occhi e contò i respiri, distese le dita strette da troppo tempo a pugno senza che se ne fosse reso conto. Si concentrò sul suono della risacca, sulle onde che s'infrangevano violente alla base della torre. Pensò al tono gentile ma deciso di James, quando gli diceva di non esplodere e si lasciava sfuggire una battuta sul suo temperamento. Una fitta allo stomaco lo distrasse, al ricordo. Mantenere la calma non aveva nessun senso, lo sapeva benissimo, non avrebbe cambiato le cose e non avrebbe riportato in vita nessuno.

The kids from yesterday | WolfstarDove le storie prendono vita. Scoprilo ora