I.

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Non riusciva a scrutare la sua immagine, riflessa in quello specchio minato di gocce tramutate da tempo in stagnanti aloni, per quella che era.

Se ne stava, da un tempo indefinito ormai, con la cera fra le mani, e le mani fra i capelli, a cercare di portare indietro le ciocche irrigidite, confuse a quel riflesso con ogni macchia, mentre il ticchettio dell'orologio da polso, unico possedimento in quel mare di nulla, accresceva ad ogni suo scorrere il pesante sudore contro le maniche grigiastre della camicia.

Non ci sapeva più fare, Dante Balestra, padrone di nulla, amato da nessuno, solo e recluso in quel monolocale assuefatto della muffa a trasalire dalle pareti, occupato da quel divano letto che mai aveva avuto forza di chiudere, a sua volta arreso a lenzuola mai lavate, alle quali prontamente si rigettava la stessa decrepita ventiquattr'ore.

Puzzava d'ogni suo rimpianto, come l'avanzo di colonia, oramai raggiunta da anni alla sua fine, allungata dal calcare a scorrere da quel rubinetto, e spalmata con insistenza sul suo collo.

Faticava, più di quanto facesse per alzarsi da quel rottame di spugna ogni mattina, e per trangugiare la stessa, confezionata e ricongelata, tristissima cena, ogni sera, per riacquistare la dignità che il suo dolcissimo appuntamento meritava di ricevere.

"Non t'impegni così tanto neanche per poter vedere nostro figlio" poteva quasi sentirla, la voce della moglie rimbombare nella cassa di risonanza che era quella stanza dove luce non entrava, a rimescolare a cadenza continua i suoi incubi alla realtà che ormai aveva perso la sua murata distinzione, divenendo nulla, e poi tutto, tutto insieme.

Ed era terribile poter anche solo pensare a Simone fra quelle quattro mura.

Simone che era così piccolo, che probabilmente neanche avrebbe raggiunto i piedini di quella sedia, e così fragile che all'umidità di quella stanza avrebbe perso ogni respiro, così pallido che senza luce avrebbe perso ogni colore, e così gentile che avrebbe assicurato, a serata finita, che quella casa del suo papà gli piaceva tantissimo, e che non aveva neppure bisogno di una stanzetta, gli sarebbe bastato un angolino dove riporre lo zainetto, e nemmeno un gioco.

Ne ricacciò via il pensiero con forza.
No, si disse, Simone quella vita non la meritava, ne tantomeno meritava un padre come lui, incapace di salutare il sole e congedare la luna, incapace di toccare la terra senza maledirla, colpevole, per causa che non era che propria, d'aver trangugiato la dolcezza di suo figlio, risputandolo in ossa e polvere e vermi.

La cornetta grigiasta, ruvida nella plastica per il tempo e l'usura, ponte e barriera al tempo stesso, restò alzata, ad impedire che voce ritrovasse il suo nuovo mondo, anche quando, a barba ancora mezza disfatta, ripercorse il cunicolo umido a riportarlo in superficie, in strada, dopo aver superato lo scricchiolare della vetrata puntellata, dove la luce dei lampioni riuscì ad infastidire per un attimo i suoi occhi stanchi.

Aveva conosciuto Anita al lavoro, solo qualche settimana prima, ed in una maniera che non aveva del tutto compreso, gli era parso di vedere la stessa luce smorta che ritrovava nel riflesso d'ogni argento.

Non s'era mai innamorato della bruttezza di una persona prima d'allora. Lo credeva possibile, nella poesia delle sue belle parole, ma mai il suo cuore era stato tanto leggero da poter pensare d'allontanarsi dalla strutturata avvenenza, ricerchiata in oro e sangue alle sue dita, non per qualcosa di tanto volubile e tanto instabile com'era Anita Ferro.

Ed era difficile notarla, sotto la cuffietta ai capelli sudati, appiccicati senza una traiettoria precisa alla fronte arrossata, sotto i guanti in latice, bucati sopra al pollice per l'attrito contro il legnoso bastone, e le scarpette bianche, a mostrarne i piedi ingrossati di tre taglie.

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