XIII

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Non si seppero spiegare, per fin troppo tempo, anche a riguardarne indietro per ricostruire a stralci bruciati quel tedioso percorso che gli aveva costruiti, il vero motivo del loro silenzio.

Non vi erano monti ne mari ad ostacolare quella traversata, il vento era estremamente calmo, e quando tirava, lo faceva a loro favore, eppure Simone e Manuel rimanevano fremi, guardandosi solo a precisi turni, per assicurarsi che nessuno dei due incrociasse lo sguardo dell'altro.

Pensarono, per poco e sporadicamente, fosse l'orgoglio di quella storia già bruciata a mantenere il silenzio regolare che gli accompagnava come fiato pesante di uno spettro alla gola.

Più plausibile si rendeva invece la consapevolezza di quel tradimento che in loro viaggiava ereditario, un'ancestrale condanna dalla quale potevano sperare di nascondersi, ma non di fuggire, che aveva fatto di qualsiasi ben teso legame, inutilizzabili e lugubri filamenti, buoni a nulla se non ad essere stralciati.

Dante, trascinato forse nel torpore di quell'apatia, aveva adottato il loro silenzio in con una colpevolezza che appesantiva ogni stanza che toccasse, e si faceva crepa al pavimento, che minacciava di cedere costante sotto i loro piedi.

La casa non era illuminata che dalla voce assente di Anita, quel suo indaffararsi alla vita tanto inusuale che moriva nel vento con la stessa velocità con cui entrava.

Si davano le spalle, ogni notte in silenzio.

Si guardavano poco, che Manuel temette, nell'improvvisa coscienza di una sera, seduto a quel balconcino a gambe penzolante alla notte, di aver scordato dove si incurvasse il volto di Simone, l'esatto colore della sua pelle, la sfumatura debole del suo sguardo.

Dante pareva sentirlo, quando i suoi pensieri si facevano caos, che con una prontezza quasi profetica lo raggiungeva su quel balcone a condividerne la sigaretta, gli lasciava un bacio sui capelli e gli sorrideva in quel modo fastidiosissimo di chi sa bene che l'angustia a torturarlo non si sarebbe risolta che in indecente felicità.

"Devi avere pazienza" gli diceva, e Manuel non capiva mai dove metterla, quella pazienza.

Non gli apparteneva, era un'estranea fastidiosa, dalla presenza soffocante, e che s'aggirava troppo e fin troppo spesso attorno a Simone, tanto che la sua mano pareva pendergli dal collo.

Non glielo voleva dire questo, quindi annuiva, sospirava, e spergiurava d'averla in pugno, quella pazienza.

Il silenzio si gonfiava poi, spingeva le pareti, allargava le stanze, e faceva tutti più distanti, all'avvicinarsi, a passi pesanti, bassi, rumorosi, del 30 di Marzo.

Gli dava alla nausea, quel silenzio, l'assopiva di un senso di impotenza tale che i palmi delle mani gli pizzicavano, ed ogni sedia pareva fatta di spine, a volerlo sempre attento, in piedi, irrequieto.

Simone aveva smesso di dormire, Dante assieme a lui.

Anita non diceva mai nulla, niente che potesse arginare la frana che damocle faceva ombra sulle loro teste. Manuel si chiedeva come facesse a guardare il giudizio disfarsi alla loro distruzione, vedere Dante lacerarsi, invecchiare di fretta e tutt'assieme, all'avvicinarsi di quel giorno, e non fare nulla.

Se lo chiedeva, a ragione del suo stesso silenzio.

Simone s'era fatto lo spettro di se stesso, eppure neanche lui faceva nulla, che seppur l'unica cosa a tenerlo assieme erano gli sporadici dolci sorrisi che gli donava suo padre.

"Ti stai per fare grande" gli diceva, senza malinconia, Simone sorrideva indietro con la stessa ineccepibile onestà, poi quando smettevano entrambi di guardarsi, si ridavano alla cenere.

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