VII.

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Non gli sorrise, la sua immagine riflessa ed ottusa, fra gli aloni chiazzati di quel vecchio, fortuito specchio, le mani a tremare contro la ceramica instabile di quel lavabo.

Non si riconosceva da tempo, che il suo viso cresceva fra le orecchie troppo grandi, fino quasi a valicarle, e la pelle si schiariva a quei brufoli sporadici che s'arrossavano al vizio di sfregarne contro le unghia mangiucchiate.

Pareva figlia di una scelta consapevole, la bruttezza che si portava dietro, che non bastava un viso delicato a combatterne i muscoli tesi a stropicciarlo in tante rughe da renderlo prugnoso, ne bastavano quelle spalle larghe se ricurve a sorreggere il peso di stare al mondo, o gli occhi grandi, sempre arrossato, strofinati, anneriti dai demoni che dietro ne ballavano fino a consumarlo a mal di testa.

Era stato timido, nel suo divincolarsi in quell'aula che gli era sembrata, ammuffita e fatiscente, una vecchia grotta dal suo perfetto ecosistema, buia abbastanza da non farsi notare, quando viscido, vi si era intrufolato come una blatta.

Aveva sperato nessuno lo guardasse, nessuno provasse a vederlo.

Manuel di certo non l'aveva fatto, le dita troppo impegnate ad intrecciarsi nel colore bluastro di quei capelli che volto non avevano, perché di volti, Simone, non riusciva a guardarne.

Aveva scelto di essere brutto allora, misero, insignificante, di scomparire fra la folla e farsi pallido come il giallognolo di quel banco macchiato d'inchiostro.

Pensava potesse bastargli, non essere visto, smettere d'essere a quel mondo per cui pareva nato storto.

Se ne sarebbe accontentato con prontezza, avesse potuto accalappiare quell'invisibilità nella rete bucata che s'era mal cucito da solo.

Sarebbe stato diverso, quanto meno, che c'avrebbe provato seriamente ad essere normale, a lavarsi via quell'odore cattivo che sentiva, o sentivano, si portasse sulla pelle, che pareva a tutti immediatamente riconoscibile, alieno, estraneo.

Anche Manuel gliel'aveva sentito addosso, anni prima, ne era certo.

Avrebbero potuto essere fratelli, ormai, se Simone non fosse stato Simone, se Simone non avesse conservato quell'olezzo maleodorante di stranezza fra le dita, se fosse stato un bambino normale, e un adolescente normale, un uomo normale, della quale adultità, a pensarci allora a quello sporco riflesso allo specchio, temeva ogni fattezza.

Voglio andare a casa.

Continuava a ripetersi.

Andiamo a casa, andiamo a casa, andiamo a casa.

Sussurrava quella ridicola cantilena a consolarlo, flebile voce distorta a tenerlo incollato alla realtà.

Non avevano riso di lui, quei corpi dai volti sfocati ma non sfigurati, dei quali non aveva colto neppure una fattezza, solo per non poterli immaginare distorti, dei quali non aveva voluto udire la voce per deformarla a lamento, per forviarne le parole, intagliarla a ossidiana per sfregiarne da se i palmi delle mani.

Non era servito, in realtà, a far crollare l'illusione di quella sua trasparenza.

"Io sono normale?"

E quella grotta era divenuta tana tanto di fretta, che il fuoco a tenerla viva aveva finito per bruciarne il volto fino a sfigurarlo, imbruttirlo e mostrarlo allora, tanto brutto quanto sapeva di poter essere, la carne viva e arsa sulla quale ogni lama avrebbe potuto tagliare così nel profondo.

Qualcuno aveva riso, e Simone, di quel suono flebile, che non era più che un compiaciuto sbuffare, aveva fatto circo, lui trapezista incapace, coi piedi traballanti e immobili a quel nylon, i birilli a cadere fino al fondo del tendono, e la folla gracchiante e deforme a indicare ogni sua mossa.

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