La Valle dell'Eco

5 2 0
                                    

Era il quarto giorno di viaggio da Ellesmera. La compagnia avanzava a passo lento attraverso la vasta foresta di Felynduil. Thalion e Ríon erano d'accordo solo su un punto: evitare le strade più battute. Tra i due non scorreva buon sangue e non facevano nulla per nasconderlo.
Ríon, un elfo robusto con occhi di un freddo grigio acciaio, spesso si prendeva gioco di Thalion, più leggero con lunghi capelli argentei e un carattere più riflessivo. Questa animosità era divenuta una costante durante il viaggio.
«I migliori che aveva, eh?» irruppe Conar, «fosse venuta la tua amica dai capelli verdi almeno avremmo riso un po'.»
«Parla piano,» sussurrò Mariel, «non vorrai farti sentire...»
Conar alzò le spalle e sorrise.
Intanto Thalion era smontato da cavallo e scrutava una serie di segni sul terreno.
«Cos'è?» gli chiese Ríon.
«Warg!» esclamò l'elfo, «le impronte sono fresche, e sono tante. Deve esserci un'orda nei dintorni. Stiamo allerta.»
Ríon annuì.
«Se posso permettermi, cosa sono questi Warm?» chiese incuriosito Conar.
«Warg, ragazzo! Sono creature ibride. Un esperimento mal riuscito di Amlhet, che voleva creare una razza di orchi intelligenti.» Thalion salì su un albero. Ispezionò il perimetro circostante, da nord a sud, da est a ovest; dopo un po' saltò giù.
«Hai visto qualcosa?» gli chiese Ríon.
«Alberi!»
«Alb... bah, meglio che lascio perdere.» Si voltò.
«Dobbiamo trovare un rifugio prima del calar del sole» disse Thalion, «o saremo prede facili per quei mostri.»
Ripresero il viaggio a un ritmo impetuoso.
La foresta di Felynduil si estendeva davanti a loro come un mare ondulante di verde. Alberi maestosi, alti come torri, si ergevano come guardiani silenziosi, le loro fronde si increspavano nel vento creando un mormorio eterno. I raggi del sole filtravano attraverso le foglie, proiettando una luce diffusa che danzava sul sottobosco.
Fiori selvatici sbocciavano tra i muschi e le felci, e il profumo terroso e fresco permeava l'aria. La vita pullulava in ogni angolo: uccelli canori salutavano il mattino con melodie dolci, mentre piccoli animali saltellavano tra le radici degli alberi.
Tuttavia, a dispetto della sua bellezza, c'era qualcosa di oscuro in quella foresta. Ogni tanto, un rombo lontano riecheggiava tra gli alberi, un promemoria del fatto che in questo bosco meraviglioso ma selvaggio, non erano i benvenuti.
Il sentiero che attraversavano era appena visibile, un tracciato nascosto tra le fronde e i fiori. Le radici degli alberi erano come serpenti che si annidavano sul terreno, pronte a farli inciampare a una minima distrazione.
Cavalcarono fino al tramonto, fermandosi solo una volta per mangiare e sgranchirsi un po' le gambe, quando finalmente, in una radura al limitare del fiume, comparve un fabbricato.
Fu Ríon ad accorgersene: «laggiù!» esclamò, indicando un punto alla sua destra.
I quattro si avviarono senza indugio verso quella che sembrava una fattoria abbandonata.
Smontati da cavallo Mariel si diresse al fiume. Si inginocchiò sulla sponda, stanca e con le gambe tremanti, e si lavò la faccia e le mani con l'acqua fredda. Il cielo non prometteva niente di buono ed era sicura che da lì a poco sarebbe scoppiato un temporale. I due elfi erano convinti che sarebbero arrivati alla Valle dell'Eco in meno di una settimana.
"E poi?" pensò Mariel, "parleremo con lo sfregiato, magari ci dirà come arrivare nelle terre oscure con qualche trucchetto da mentecatto, e magari ci dirà che al di là del confine c'è un enorme mostro a quattro teste che mangia gli umani in un solo boccone..."
«Cos'hai da ridere?»
Mariel ruotò su se stessa scrutando nella semioscurità. La voce di Conar sembrava galleggiare tra i colori fiammeggianti del crepuscolo. Si avvicinò al fiume e si sciacquò il viso, schizzandosi dell'acqua anche sui capelli.
«Quindi?»
«È una missione suicida.» biascicò Mariel.
«E questo ti fa ridere? Siamo messi bene!»
I due ragazzi si adagiarono sull'erba, una accanto all'altro. Fissarono in silenzio il cielo infuocato finché divenne tenebra, e, di tanto in tanto, i loro sguardi si parlavano.
«Come pensi che andrà a finire?» La voce di Mariel era un sussurro sommesso.
Conar si girò su un fianco per guardare la sua amica.
«Tu ci credi a questa profezia?»
Mariel ci pensò un attimo, poi si voltò a guardarlo: «tu?»
«Secondo me queste profezie non sono altro che parole dettate dalla follia. Poesie che infondono speranza agli oppressi, speranza per una vita migliore.»
«Quindi pensi che non abbia alcun senso?»
Conar scosse la testa. «Penso che sia lo stesso oppressore a voler infondere speranza agli uomini. Un uomo senza speranza è pericoloso. In questo modo invece, si attende l'arrivo del "messia", e si vive nella speranza che prima o poi tutto possa finire. Una sorta di manovra difensiva ben studiata.»
«Hai una mente contorta, sai?»
Conar alzò le spalle.
«Sono cresciuto con la speranza che, prima o poi, mia madre e mio padre sarebbero tornati da me a riprendermi. Con quella speranza nel cuore sono rimasto schiavo di mio zio per molti anni. Se solo avessi perso la speranza...»
«L'avresti ucciso?»
«Forse no, ma almeno sarei scappato da quell'inferno.»

Mariel: Il covo delle ombreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora