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Ricordo ancora il mio primo incubo. Quel momento in cui mi accorsi che, di notte e solo nella mia mente, succedeva qualcosa di completamente diverso da ciò che credevo possibile nella vita reale.

Una mattina appena sveglia – potevo avere quattro, cinque anni – corsi da mia madre in lacrime, dicendole di aver sognato che una mia compagna d'asilo di nome Aurora aveva starnutito e si era trasformata di colpo in un mostro. Mi ricordo nel buio di quella chimera, piccola e indifesa, nascosta dietro il muretto di un vicolo dai contorni sfumati che guardavo quell'essere informe crescere e crescere, dall'aspetto non ben identificabile ma sicuramente non umano.

Non fu quello, però, il mio sogno più spaventoso.


Il salone della casa dei miei nonni ad Atri era grande e antico, sembrava quasi uno di quei salotti letterari dove qualche gentiluomo poteva riunirsi a discutere delle ultime questioni sociali di rilievo. Il soffitto, alto ben sette metri – non che li abbia misurati: così mi hanno sempre detto – era costellato di motivi geometrici barocchi, con un fiore esagonale a ghirigori che si estendeva dal centro della volta costellandone la superficie come un cielo. Dal cuore del disegno si allungava un pesante lampadario di cristallo, e di cristallo erano anche i fiori finti nel vaso sul tavolino da tè e i bicchieri ordinatamente posti dentro l'armadio di legno buono. Al centro della sala troneggiava un pianoforte a coda, nero, elegante e con qualche tasto inceppato. Ma non era nemmeno quello a farmi paura, sebbene le melodie che mia zia suonava sui tasti bianchi e neri, malinconiche e trasognate, continuino ad echeggiare nelle serate estive di adesso.


Il nonno aveva appeso i suoi numerosi quadri su ogni parete della casa. Erano bei dipinti, ritraevano il suo paese, il mare, la mamma e la zia da piccole, donne di fantasia avvolte da corone di fiori. Tuttavia nel salone grande, spazio già anacronistico e austero di suo, ce n'era uno davvero inquietante. Il nonno l'aveva chiamato "Il precettore": a suo dire, ritraeva una giovane donna che teneva in mano un libro, affiancata dalla figura del maestro che vegliava su di lei. Il libro c'era sicuramente, e si potevano ben distinguere i due protagonisti della tela, ma sui loro volti aleggiava una tonalità verdastra e blu e gli occhi di lui erano inquisitori e vacui, i due sorrisi statuari incutevano timore. Per il nonno, erano un'insegnante e la sua allieva; per me, erano sicuramente due spiriti.

Sulla parete opposta al quadro, sopra il pianoforte, c'era uno specchio inclinato verso il basso. Non ho mai compreso il perché di questa disposizione. So soltanto che guardandolo, in piedi davanti ad una delle poltrone, si può scorgere dietro alla propria figura riflessa quella del precettore alle spalle di chi osserva. Sembra tenerci d'occhio, pronto a compiere qualcosa di innominabile.


Nonno Vincenzo credeva nella reincarnazione. Ho perso il conto delle volte in cui ha cercato di spiegarmi la sua teoria giustificandola con le proprie esperienze personali.

Qualche volta, davanti al camino acceso d'inverno, attaccava raccontandomi il sogno ricorrente che secondo lui più di tutti era la prova definitiva della sua presunta scorsa vita. Nel sogno c'è un nobiluomo che sta salendo le scale della propria dimora, un edificio antico e ben arredato. In cima alle scale c'è un grosso portone pesante, lui lo apre lentamente e... zac, si ritrova un pugnale conficcato nel cuore. Non riesce a gridare, sente la bocca secca e vede sangue dappertutto. Poi si sveglia, coperto di sudore.

Il nonno era convinto, sulla base di queste visioni notturne, di essere stato precedentemente un ragazzo appartenente ad una ricca casata aristocratica e di essere stato ucciso, in giovanissima età, per qualche motivo economico o per un litigio personale. «Chiedi un po' a Pia se non mi sente la notte che urlo» mi diceva, come a dare un ulteriore fondo di verità alla storia della metempsicosi. Un dipinto come quello del precettore non era nulla in confronto ai fantasmi che popolavano la sua mente – così come la casa, e tutto il paese.

Nonno Vincenzo è sempre stato molto tragico e romantico, da pittore e musicista qual era; parlando ci metteva un sacco di sentimento, soppesava ogni parola accompagnandola con gesti calmi ed espressivi. Rivolgendosi a me – quando voleva fare bella figura con qualche ospite, o quando trattava a cena certi argomenti che lo facevano sentire un signore ricco di cultura – sfoderava sempre un italiano ordinato e ligio, da libro stampato. A volte tirava fuori la teoria della trasmutazione delle anime anche davanti alla zia che, quando lo sentiva spiegarmi nel dettaglio le sue idee sulla seconda vita, sbuffava e rispondeva soltanto con voce stridula: «Pà, ancora?».
La fede non era un argomento di piacevole dibattito in casa, per cui di solito il nonno tagliava corto e mi diceva scherzando di non ascoltare le stramberie di un vecchietto, ché non ne valeva la pena.


Quando abitavo nella casa dei nonni anch'io avevo un sogno ricorrente. Fu l'unico; dopo quel periodo non mi successe mai più.

Vedevo tre figure esili, grigie, prive di fattezze umane, che dalla porticina in fondo al salone emergevano nella penombra. La scena era sempre uguale: le tre sorelle senza volto attraversavano la stanza passando dietro il largo divano a fiori, accanto al pianoforte, senza rumore e senza toccare terra, con i lunghi abiti stracciati come fantasmi.
Io non scappavo mai. Ero solo ferma, osservavo la lenta passeggiata degli spiriti e aspettavo per brevi istanti. Ma nulla mi raggiungeva.

Per qualche motivo, sono sempre stata convinta che le tre sorelle comparse più di una volta nei miei incubi infantili provenissero dallo stesso mondo del precettore nel quadro. Era un mondo distorto, come quello di Picasso, di Munch, ma più cupo, a cui mio nonno in un momento di follia geniale aveva avuto accesso concedendosi di ritrarlo.

Crescendo realizzai che tutta Atri – e forse proprio tutto il mondo – era un po' come quegli universi immaginativi a cui alcuni pittori surrealisti attingono, freddi, ambivalenti, distorti, sottosopra. Camminando per le vie del belvedere al crepuscolo si percepiva chiaramente il turbamento di una vita in cui non c'è angelo e non c'è demone che regga il confronto di quello che l'anima contiene, dei mostri che nessuno ha mai ancora nominato.

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Alla fine ho deciso di pubblicare oggi tutti i primi capitoli scritti finora in modo da dare un'anteprima del libro abbastanza fedele! Oltre il quinto, però, per il momento non mi spingerò. Buona lettura a tutti! <3
aiko-

Non ci sono fiori nel deserto - Parte I: Il castello di sabbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora