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Il mare di Pineto era sterminato. Da un lato e dall'altro, la strada sulla spiaggia che costeggiava l'adriatico non finiva mai; alla zia Elisabetta piaceva fare lunghe passeggiate sulla battigia dal nostro lido fino alla torre di Cerrano quasi tre chilometri più a sud.

Tutte le estati il mare diventava la mia casa per una lunga stagione. Era sicuro, dolce, caldo e non faceva paura, un po' come il mondo visto da un bambino, pieno di tenere sorprese in attesa di essere svelate. Al mare ho imparato a nuotare senza braccioli, a scrivere in corsivo nell'estate tra la prima e la seconda elementare, a parlare in inglese con certi turisti britannici dell'ombrellone affianco. Avevano lo stesso significato di casa il sole, la brezza umida, i gelati del chiosco, le pizzette avvolte nella carta stagnola, il profumo dei libri nuovi sotto l'ombrellone, la sabbia sulle dita. Al pari di un letto caldo, le lenzuola blu delle onde e la calda coperta di luce dorata mi accoglievano regalandomi sogni felici. C'erano i costumi colorati, gli aquiloni alti nel cielo, le conchiglie con il buco che sembravano create apposta, come perline di collane. Il mare era certezza. Lì non c'era nulla di oscuro o d'ignoto, eppure tutta l'acqua e il sale chiamavano a sé per essere scoperte, toccate, annusate ancora di più.

Il nostro posto alla Sirenetta ci aspettava immutabile: terza fila, terza colonna dal casotto in giù. Erano amici dei nonni Lino e Paola, coppia di sessantenni proprietaria dello stabilimento che mi ha vista crescere un po' di più ad ogni bella stagione. Ai miei nonni i due facevano un prezzo di favore poiché la nonna aggiustava i vestiti di entrambi per le occasioni speciali, e a gratis.


Stava per finire l'estate precedente il mio ultimo anno di asilo quando proprio sulla spiaggia di Pineto raccontai alla mamma un'improbabile storia sulle mie origini. La inventai di sana pianta un mattino in cui passeggiavamo tra La Sirenetta e Il Castello, lo stabilimento dei miei zii – che in realtà erano cugini di secondo grado dal lato della nonna Pia.

Il lido del Castello aveva file ordinate di ampi ombrelloni di paglia, mentre alla Sirenetta gli ombrelloni erano a strisce bianche e dorate. Il Castello possedeva anche un ristorante di specialità marittime sotto la pineta, scivoli, altalene e il biliardino. Perciò spesso andare a trovare gli zii, tutti adulti e senza figli, era un pretesto per cambiare aria e portarmi ai giochi camminando per un breve tratto di dieci minuti a piedi lungo la costa sabbiosa. Quelle piccole passeggiate lente e senza pensieri le occupavamo parlando, la mamma ed io.

La ricordo, in quei periodi dell'anno, come una bella donna di trent'anni bionda, in costume a due pezzi. Si tingeva i capelli corti e mossi, che di natura erano invece neri come il carbone, a causa di qualche accenno di bianco per l'età che avanzava. Aveva un fisico asciutto perché camminava tanto, era sotto il metro e cinquanta ma con quelle sue gambette leste sembrava potermi portare ovunque.

Un'amica della mamma, Renata, che aveva il naso a punta come un folletto e lavorava nell'unico negozio di giocattoli del centro, mi aveva regalato proprio durante quell'estate un nuovo libro illustrato. Io avevo quattro anni e poiché sapevo già leggere di libri ne avevo molti. Li scarabocchiavo, li mordicchiavo, li portavo in spiaggia e si riempivano di sabbia, li sfogliavo durante i pasti e smollicavo nella rilegatura. Ma con quello era diverso. Quando Renata passò a casa a prendere un caffè con la mamma e tirò fuori dalla borsa il pacchetto incartato in graziosa carta viola, mi sorrise e disse: «Questo è per quando sei un po' più grande». La mamma lo ripose poi nella sua libreria in alto, dove non arrivavo, ma nei giorni successivi non riuscii a resistere alla tentazione e mi arrampicai su una sedia traballante posta di fianco agli scaffali, scartai l'involucro colorato e iniziai a leggere piano, con rispetto.

Si chiamava "Quasi farfalle". Non capivo il perché di quel "quasi". Quel libro era qualcosa di differente rispetto agli altri che avevo sfogliato fino ad allora, pieni di disegni grandi, infantili, dai colori vivaci che stagliandosi sul bianco quasi aggredivano gli occhi con la loro presenza sul foglio. Era invece un volumetto delicato: caratteri minuti ed eleganti si stagliavano discreti su sfondi cerulei e verde salvia simili ai colori del fondo del mare, le illustrazioni sembravano acquerelli come alcuni dipinti del nonno. Non capivo il significato di una buona metà delle parole, ma mi affascinò. Si trattava di racconti le cui protagoniste erano donne fatate, non umane e non farfalle, ma che avevano qualcosa di entrambe. Quando ritrovai lo stesso volume in biblioteca anni dopo e lo rilessi con cognizione di causa, le storie delle ragazze lepidottero mi lasciarono meravigliata così com'era stato da piccola. Tra di loro c'era ad esempio Cedronella, una minuscola bambina che profumava di limone e viveva in un cassetto. Credetti di somigliarle.


Sempre quell'estate, per la prima volta, iniziai ad accorgermi - e a sorprendermi - di quanto spesso al mare ci fossero le farfalle. Una farfalla sola, o due che volteggiavano in coppia. Sorvolavano la pineta fin sopra il mare e mi chiedevo dove potessero atterrare. L'acqua, calma o agitata, le avrebbe inghiottite nel suo continuo moto fluido se solo si fossero avvicinate un po' troppo; ma quelle, percorrendo in una danza continua la spiaggia, sembravano ignorare ogni pericolo piccole com'erano, dalla vita estremamente breve e innocua. Volavano in alto vicino al sole attratte dalla luce, anche se al di sotto delle loro fragili ali si estendeva il blu infinito. Si dissolvevano negli scintillii riflessi dalle onde percorrendo le acque fino alla secca, verso l'orizzonte, nel dondolio irregolare delle loro traiettorie.


Successe che eravamo proprio a Pineto, io e la mamma, quando le spiegai con serietà che non ero la sua vera figlia. Stavamo raccogliendo insieme conchiglie da riportare a casa nel corso della nostra lenta passeggiata verso il Castello e vedemmo una vanessa atlanta dai colori brillanti, arancio e nero, che dalla spiaggia libera accanto al lido aveva sorvolato le chiazze buie degli ombrelloni e i pedalò lasciati al sole per poi zigzagare con leggerezza al di là dell'azzurro, dove la perdemmo di vista.

Così mi girai composta verso la mamma e le riferii: «Sai che io sono una farfalla?».
Lei mi guardò con tenerezza e smise di raccogliere conchiglie. Ero una bambina dotata di indubbia fantasia, ma ogni volta che le raccontavo qualche storia nuova la mamma mi ascoltava fino alla fine senza batter ciglio. «Chi è che saresti?», mi chiese con dolcezza.

Indicai la macchia di colore che volava verso il sole, lì dove l'eccessiva luminosità del cielo impediva di mantenere lo sguardo alto senza socchiudere gli occhi. Starnutii. Le giornate di luce intensa mi facevano venire un pizzicorio al naso.

«La farfalla?»
«Sì».

Le raccontai che ero atterrata lì, al mare. La mamma farfalla mi aveva persa quando ero caduta in acqua, le ali si erano inzuppate di acqua salata, non riuscivo più a volare così mi ero trasformata in una bambina. Ma siccome di bambine non potevano essercene due, la piccola umana di cui avevo preso il posto si era ritrovata intrappolata in un minuscolo corpo alato e ora era condannata a volare senza sosta sull'oceano, sperando di ritrovare la sua famiglia.

«Tu non lo sai, pensi che sono Aisha perché ho la faccia da bambina», le spiegai mentre facevo cerchi nella sabbia con le dita.
«Ah, davvero?»
«Sì».
Guardai fiduciosa il mare e il cielo. Raccontavo la storia come se fosse vera, e chissà, forse poteva esserlo davvero. Le onde e le stesse farfalle sembravano essermi testimoni con il loro moto silenzioso.

Dissi alla mamma di non preoccuparsi: la figlia farfalla sentiva molto la sua mancanza ed era proprio questo il motivo per cui ogni giorno veniva al mare solo per incontrarla, volando attorno ai suoi capelli sulla pineta. Presto io sarei tornata nel suo corpo e lei nel mio, e ci saremmo riviste mai più.
La mamma sorrideva. «Ma sai, a me va bene averti come figlia anche se sei una farfalla. Perché», aggiunse, «sei molto carina anche tu!»
«Io non posso stare con te tanto tempo», sentenziai seria. «Però qualche volta ti vengo a trovare, quando me ne vado».
«Promesso?»
«Sì».
Forse sotto quel nuovo aspetto non mi avrebbe riconosciuta, avrebbe potuto scacciarmi via, così le suggerii di guardare bene in testa alla farfalla: se aveva i capelli biondi, ero sicuramente io che tornavo per salutarla.


Negli anni ripensavo alla favola inventata per la mamma come si ricorda un sogno lontano. Per questo, forse, il tempo ha permesso alla leggenda della bambina farfalla di assumere toni di realtà. Come una qualsiasi altra memoria della mia infanzia, il racconto delle mie origini manomesso dalla fantasia aveva iniziato a far parte della mia storia personale. Mi rivedo volatile, leggera, sento la nostalgia di una famiglia che incomprensibilmente è attratta dal mare pur senza appartenervi, poiché la sua vera dimora è il cielo.

È forse lo scintillio delle onde a chiamarmi a sé? È forse la luce del sole al di sopra della schiuma marina? Casa mia, di sicuro, non si trova lì, ma io continuo a tornarvi come ci si affaccia alla finestra di una dimora accogliente cercandone il proprietario, come le farfalle sorvolano il mare senza poter atterrare. Avrei continuato a guardare dall'alto il mondo ancora per molto tempo prima di potermi tuffare. Ma a quattro anni questo ancora non potevo saperlo.

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heyhey!
Sono tornata a pubblicare, questo pezzo in realtà l'ho scritto ad agosto/inizio settembre, ma ero ancora insicura sul fatto di condividerlo anche qui perché beh... mi sembrava un po' strano. Forse però anche le cose strane hanno il loro perché. A voi il giudizio :)
aiko-


Non ci sono fiori nel deserto - Parte I: Il castello di sabbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora