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Nei fine settimana la mamma mi portava in moschea a Tortoreto. Dalla casa dei nonni in macchina ci mettevamo quasi un'ora ad arrivare, ma la sala di preghiera in quella città era l'unica di tutta la zona costiera abruzzese.

Del resto, ad Atri di famiglia musulmana ce n'era una sola. Oltre la nostra, naturalmente, che però era una famiglia solo per metà.

Quegli altri erano mulatti, padre italiano e mamma marocchina, e abitavano alle piane sotto la chiesa di Santa Rita a scendere. Il figlio si chiamava Zakaria, ma tutti lo chiamavano Zack. Mi sembrava un nome fico, da ragazzo grande. Ovviamente mi innamorai in tempo zero.


La mamma passava a prendere Zack in macchina, la domenica mattina, tra le colline. Il padre era proprietario di alcuni terreni di ulivi e frutteti e si dedicava al commercio di alimentari al mercato del lunedì; perciò Zack abitava in mezzo a sterminati campi verdi e per merenda portava con sé, dentro lo zaino, susine succosissime che mi offriva volentieri - lui odiava la frutta. Stavamo nei sedili posteriori, e mentre io prendevo a morsi le susine lui mi mostrava il suo album di figurine dei calciatori Panini. Io mi fingevo interessata pur non sapendo nulla delle diverse squadre; ammiravo soltanto il modo lesto con cui sfogliava le carte, una dopo l'altra, tenendole con una sola mano, e le sue infinite conoscenze calcistiche - mi nominava dozzine di attaccanti e difensori di cui non avevo mai sentito parlare, parlandomi dei più e dei meno forti, dei diversi stemmi e dei colori delle magliette. Zack non era bellissimo, aveva le orecchie a sventola, ma era un anno più grande e parlava tanto, da esperto, e questo bastava per renderlo affascinante.

La mamma di Zack era una donna dal viso smorto, con gli occhi costantemente affossati dietro grosse borse grigie. Era giovanissima e sicuramente avrebbe potuto essere molto graziosa, perché aveva dei lineamenti delicati e la pelle liscia e olivastra, era alta e dal fisico asciutto. Tuttavia, ogni qualvolta passavamo a trovarla, sulla soglia della porta ci accoglieva con i capelli in una crocchia sfatta e vestiti sproporzionati - una grossa felpa, una gonna pantalone - ornati da fantasie di colori sbiaditi che si abbinavano male alle profonde occhiaie. Da qualche mese aveva avuto un'altra bambina, la piccola Ines, e la gravidanza doveva averla sfinita: sembrava continuamente assonnata, non aveva mai voglia di cucinare e ancor meno di andare con il figlio fino a Tortoreto, così lo affidava alle cure di mia mamma.

A preparare da mangiare ci pensava sua madre, la vecchia Halima. La sua specialità era il cuscus, che condiva con abbondante zafferano che rendeva gialli i piatti di plastica e gialle le mani con cui appallottolava le piccole porzioni destinate a sé e alla piccola Ines. 

Halima poteva essere sulla cinquantina, come nonna Pia, all'epoca; tuttavia li portava male, o forse era soltanto la carnagione bronzea a far risaltare i capelli grigi raccolti in una crocchia disordinata - che invece mia nonna si curava di nascondere con tinte castane mensili. Rideva tanto, a bocca aperta, sguaiatamente. Ammirava mia madre in quanto musulmana convertita riempiendola di complimenti e di mashallah ma, sempre in quanto tale, sembrava considerarla un po' stupida poiché indietro sulla maggior parte delle usanze culturali della famiglia. Come una mamma chioccia, tentò più di una volta di insegnarci ad appallottolare il cuscus secondo la tradizione - cosa che io rifiutai insistentemente di imparare, al contrario di mia madre che compì qualche imbarazzato tentativo senza successo. 

Alla moschea di Tortoreto venivano anche Eya e Nur, due sorelle più grandi di me. Ero molto contenta quando c'erano anche loro perché erano allegre, affettuose e mi strapazzavano riempiendomi di attenzioni. Per lungo tempo fui convinta che Zack fosse loro cugino, poiché entrambe chiamavano sua mamma zia; più in là realizzai che erano di famiglia originaria del Bangladesh ed esclusi a priori ogni reale parentela, soprattutto dal momento in cui capii che nella comunità islamica tutti si chiamano fratelli, sorelle, zii e zie senza distinzioni. 


La domenica mattina c'erano lezioni di religione. A noi bambini distribuivano un libricino fotocopiato e tenuto insieme da graffette d'ufficio; conteneva storie, insegnamenti di buona condotta, spiegava chi erano gli angeli e i profeti. C'era scritto: chi ha creato gli alberi, le colline, la natura? E' stato Allah. L'imam leggeva con noi e ci faceva colorare le immagini stampate con i giardini del paradiso, con la luna e le stelle, sdraiati a pancia in giù sul tappeto morbido con gli arabeschi.

Tra i numerosi racconti dell'albo ce n'era uno che parlava di un bambino la cui madre malata gli chiese una sera di portarle un bicchiere di latte; quando il bambino tornò la mamma si era addormentata, e lui per non svegliarla attese tutta la notte in piedi al suo capezzale con il bicchiere in mano. La morale avrebbe dovuto essere: il rispetto per i genitori viene prima di ogni cosa. Tuttavia mi chiedevo perché il bambino non si fosse seduto o non avesse poggiato il bicchiere sul comò per poi andare a dormire; questa opzione mi sembrava ugualmente rispettosa e in più anche comoda. 
Di storie così ce n'erano tante, alcune non le capivo del tutto, ma mi piaceva leggere quindi andava bene lo stesso.

Le lezioni duravano poco, meno di due ore, e da mezzogiorno in poi quando finivano si pregava e poi andavamo a mangiare tutti insieme a casa di Eya e Nur. Le sorelle abitavano in un condominio proprio davanti alla moschea. L'appartamento era piccolo, profumava di curry e pollo, alle finestre c'erano morbide tende arancioni che diffondevano una luce calda e soffusa. 

Il padre delle gemelle possedeva un bazar subito sotto casa, di quelli che vendono un po' di tutto. Ci piaceva curiosare all'interno del grande negozio, che in quel giorno della settimana era sempre in penombra e con la saracinesca abbassata, e giocare a nascondino tra pile di carta igienica accatastate, pannolini, accessori per la casa, giocattoli di dubbio gusto. Il papà delle bambine era gentile, ci sorrideva senza un dente e ci prendeva in spalla, giocava con me e Zack a pallone nel cortile del magazzino. Zack era bravo, ma anche a me piaceva il calcio, tiravo delle cannonate potentissime che facevano finire la palla sul tetto del bazar. Le bambine ci guardavano sedute sul marciapiede, ridendo.


Zack frequentava la mia stessa scuola ad Atri, ma non eravamo in classe insieme, quindi ricordo raramente di averlo incontrato nei corridoi. Del resto tra i miei compagni di classe mi piacevano altri due o tre bambini, quindi in ambiente scolastico l'interesse nei suoi confronti slittava automaticamente in secondo posto.
Vedevo molto meno Eya e Nur. Abitavano lontano e spesso non riuscivamo nemmeno ad andare a Tortoreto ogni fine settimana. C'erano domeniche in cui i nonni attaccavano a litigare con la mamma proprio mentre mi preparavo lo zaino con i pastelli; cercavano di non far risultare il conflitto troppo ovvio ai miei occhi, abbassando di poco la voce quando ero nei paraggi, ma senza successo. Quando iniziavo a sentirli parlare in abruzzese capivo subito che la nostra gita in moschea sarebbe saltata e tornavo a giocare con i miei pupazzi, intervenendo con un «nonna, non si dice!» solamente quando sentivo volare qualche parolaccia - ero molto ligia a riguardo.

Non capivo onestamente cosa ci fosse da discutere. La nonna mi aveva portato dalle suore durante l'estate, quindi perché non avrei dovuto passare del tempo in moschea ogni tanto? Quegli altri erano simpatici, mi offrivano dolci e stuzzichini mai assaggiati, si vestivano in modo diverso e colorato. La mamma con loro sorrideva sempre e per me, più amici c'erano, più si stava bene. 

Tuttavia negli occhi dei nonni vedevo la paura. C'era come qualcosa che io non riuscivo a percepire, e che la mamma invece capiva e respingeva, nel terrore delle persone che ci circondavano. Era una sorta di tabù, un argomento da non trattare. Il velo, le preghiere, i cibi speziati, l'incenso e i tappeti dovevano restare fuori dalla vita pubblica, da quella in casa, quella in cui erano inclusi i parenti, il mare, la piazza di Atri, gli amici a scuola. Dovevano essere due poli opposti che non si incontrano mai. 


Il castello di sabbia a due facce stava per crollare. 

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Mi sento molto ispirata ultimamente :) 
Spero che vi piaccia anche questo capitolo!
aiko-

Non ci sono fiori nel deserto - Parte I: Il castello di sabbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora