La casa grande di via Sant'Agostino era stata di proprietà dei d'Amato, una famiglia abruzzese, dicono, di rilievo che possedeva svariati edifici nel centro storico con cui per caso il bisnonno si trovò ad avere a che fare nel corso dei suoi affari. Le origini del nonno Vincenzo, così come quelle della nonna Pia, affondavano le radici nella campagna scorranese ben lontana dal paese e con scarsissime fattorie abitate, ma i Petrosi erano riusciti a trasferirsi in centro grazie al business fiorente della compravendita di immobili. Non mi è chiaro tutt'oggi come sia stato possibile per la nostra famiglia trovarsi tra le mani un palazzo storico di quel calibro: a due piani, ampio, con terrazzo e balcone ben tenuti, tre camere da letto, vari studioli, il salotto d'ingresso e ovviamente il salone grande, punta di diamante che, se di notte sapeva essere poco rassicurante, di giorno risplendeva di valore e antichità e poteva essere il teatro ideale per qualche fantasia principesca.
Ho sempre creduto che i miei nonni fossero ricchi. E, ancora oggi, non sono in grado di capire se lo siano sul serio oppure se la parsimonia di mia nonna, abituata a sopravvivere con il minimo indispensabile nel suo orticello fuori San Martino, abbia condizionato tutta la famiglia portandoci ad essere consumatori moderati di beni materiali – mentre magari chissà quale tesoro giace nei fondi di risparmio familiari, tenuto da parte per evenienze come l'acquisto di un'altra casa, un matrimonio, una nuova macchina.
La nonna me lo ripeté più volte nel corso degli anni, sempre in tono sconsolato: Tu sei e sarai sempre la regina di Atri. Durante l'adolescenza quella nenia rassicurante e allo stesso tempo quasi perentoria mi ripeteva sottovoce, ma chiaramente: torna, torna qui.
Forse per questo e per l'immagine di agio che mi trasmetteva quell'unica stanza sfarzosa con il pianoforte a coda, unita a tutte le piccole cose splendenti della mia vita in Abruzzo, il canto da sirena di un mondo che ricordavo così pieno di lussi e gioie continuava a propagarsi ancora anni dopo per sedurmi e riportarmi indietro, anche se solo per poco - le sirene, si sa, portano ad annegare solo i marinai senza rotta.
Nonno Vincenzo mi portava a spasso per Atri in tutte le stagioni. In quegli anni nelle vie attorno al belvedere giravano tantissimi gatti randagi e io mi fermavo ad accarezzarli, inseguirli, far loro le moine. Uscivamo d'autunno a raccogliere i ricci delle castagne, d'inverno a lanciare palle di neve, mentre d'estate mi esercitavo ad andare in bicicletta. Il belvedere era pieno di monumenti dal dubbio significato: una grossa mano che tira un pezzo di tessuto senza toccarlo; un omino a gambe incrociate, pensoso; una sorta di sirena intrappolata in uno scoglio rovinato dal tempo; e altre statue ancora che non mi prendo la briga di interpretare. Andando oltre le colonne marmoree del luogo più significativo della città si poteva tuffare lo sguardo nel panorama di nebbia, colline, mare, calanchi. Il nonno esaltava Atri, esaltava l'Abruzzo, ed era convinto più che mai che dal nostro paesino derivasse il nome dell'intero Mar Adriatico, e che Annibale (o era Napoleone?) avesse abbeverato i propri cavalli purosangue alla fontana della villa comunale.
La mamma, al contrario, odiava il paese. Voleva andarsene. Non me l'aveva mai detto esplicitamente; lo capii nel corso degli anni che la vita lì le era sempre stata stretta, la angosciava. Le strade lastricate, così anguste che passare con la macchina in centro pareva un miracolo. La gente, che mi riconosceva ancora prima che io conoscessi loro, che si fermava quando ancora ero in carrozzina per tenermi in braccio, salutarmi e farmi complimenti indiscreti. Le rondini chiassose nel cielo terso, le piazze piene di vecchi curiosi, il tubare insistente dei piccioni nei loculi della cattedrale. Ad Atri succedevano cose che alla mamma, che percepiva più degli altri ciò che c'era intorno, parevano moniti inequivocabili, avvertivano della necessità di abbandonare quel luogo maledetto per emigrare lontano.
È sempre stato così, fin dall'inizio: una lacerazione tra forza centripeta e centrifuga, come avrei imparato a definirla un decennio più tardi, tra rimango e scappo via.
La massima aspirazione dei nonni era quella di tenermi con loro per sempre. Il nonno conserva ancora gelosamente tutte le fotografie di quando in spiaggia mi arrampicavo sugli alberi della pineta, dei pupazzi di neve, dei primi giorni di scuola, delle partite di baseball con la mia classe alle elementari. Le foto negli anni si moltiplicarono e comparvero su tutti i muri della casa, come circondate da un'aura di sacralità, accanto ai quadri ambigui di donne floreali. Ritratti di me sorridente, imbronciata, da sola, con gli amici della scuola, con i parenti, con i miei pupazzi, che dipingevo, suonavo, facevo capriole.
Più foto mie coprivano le pareti di quel santuario, quasi a sancire l'appartenenza della nipote tanto amata al paese natìo, e più la mamma non vedeva l'ora di prendermi e portarmi via e strappare tutte quelle foto e dire a mio nonno: smettila pà, noi non siamo qui per davvero. Tuttavia Atri continuava ad accumulare, a conservare, a stipare ogni minima traccia del mio passaggio, forse sentendo che non sarebbe durato a lungo.
Ricordo ancora la commozione del nonno e il suo orgoglio quasi genitoriale quando un giorno, tornata a casa dall'asilo, gli raccontai che qualcuno degli altri bambini mi aveva chiesto: «Come si chiama il tuo papà?».
Nessuno di loro l'aveva mai visto, non erano nemmeno certi che ne avessi uno.
E nemmeno io, del resto.Avrei potuto rispondere che io non ce l'avevo proprio e che non mi interessava, e non avrei mentito del tutto. Invece, con una certa nota di memorabilità nel tono, dissi a tutti: «Il mio papà si chiama Nonno».
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Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Mi sono divertita molto ad approfondire il legame della protagonista con il nonno e il contrasto tra il rapporto con la madre, che vuole andarsene, e la famiglia che vuole tenersela stretta.
Che ne pensate?
aiko-
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Non ci sono fiori nel deserto - Parte I: Il castello di sabbia
Tiểu Thuyết Chung"Con il senno di poi ho pensato più volte che sarebbe bello potersi sedere, per qualche istante, accanto a quella bambina. Vorrei giocare con lei, dirle di restare così com'è sempre comunque e che tutto ciò che cercherà di stravolgerla non dovrà ma...