6

57 12 6
                                    

Capii di essere diversa un bel mattino di agosto, sulla spiaggia di Pineto. Stavo giocando con secchiello e rastrello, impastando un qualche intruglio sotto l'ombrellone, quando mi si avvicinò una bambina che mi chiese: «Come ti chiami?»

Avevo tutto il sole in faccia e strizzai gli occhi per alzare lo sguardo nella sua direzione.

«Aisha, e tu?»

Forse era per il sole, ma mi sembrò di cogliere nell'espressione della bambina una lieve stizza. Con solennità rispose: «Ah sì? Io invece mi chiamo Bloom».

Non rividi Bloom mai più.

La mamma aveva espresso alle maestre dell'asilo la volontà di non inserire carne di maiale nel mio menù in mensa. Una volta chiesi quindi ad Aurora, che era seduta accanto a me, di poter assaggiare una fetta del suo prosciutto crudo per curiosità. Mi fece schifo, sapeva troppo di grasso e di marcio, ma ignorai il disgusto perché prevaleva la soddisfazione di aver sperimentato una cosa sconosciuta.

Una volta a casa domandai alla mamma: «Ma perché non posso mangiare il prosciutto?»
Lei era al computer, batteva regolarmente i tasti scrivendo cose che non potevo ancora sapere.
«Tesoro, perché sei musulmana».
Non capivo del tutto cosa significasse.
Senza particolari ragioni, mi opposi: «Io non voglio essere musulmana, voglio mangiare il prosciutto».

Era una bugia.

Dalle suore andavo tutte le estati, per volere di mia nonna che aveva alcune amicizie nel convento. A cinque anni suor Renata, una donna vecchissima, che si muoveva lenta e pacata, mi insegnò a ricamare; ci sedevamo sul bordo di una fontanella, il giardino circostante sembrava una piccola dimora delle fate, dai rampicanti verdissimi e disegni di luce creati dal sole che filtrava nel patio interno attraverso i riflessi delle finestre colorate. Con le bambine più grandi, ci si sfidava a mettere la punta dell'ago sotto la pelle come una sorta di prova di coraggio. Imparai a disegnare sulla tela, con i fili, paperelle, rose, lettere, il mio nome. Ci facevano imparare le preghiere, mettendoci in fila e facendoci ripetere: Ave Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori.

Anche la mamma a casa indossava un velo per pregare. Era diverso da quello delle suore. Tutte le sere la nonna si arrabbiava con lei quando, entrando in camera, trovava il tappeto steso a terra tra i nostri due letti e la mamma inginocchiata. La mamma mentre pregava non rispondeva mai né spostava lo sguardo dal pavimento, ma sono sicura che le urla della nonna la spaventassero almeno tanto quanto facevano sobbalzare me.

Una sera indossai uno dei veli della mamma. Era rosa, pieno di brillantini. Andai nello studio da sarta della nonna, che stava cucendo un vestito per il prossimo matrimonio di una nostra cugina. Era concentrata, dalla bocca le spuntava la capocchia di un grosso spillo. Le dissi: «Guarda nonna, prego anch'io» e congiungendo le mani esclamai: «Amen».

Capii troppo presto il motivo per cui mia madre e i nonni litigavano. Lo capii ma, allo stesso tempo, non riuscivo ad afferrarlo con chiarezza.

Il ricordo più vivido e insieme confuso che ho di uno di quei momenti di conflitto risale a una mattinata di febbre alta. Mi ero svegliata tardi, la nonna stava preparando un dolce al piano di sotto, pioveva. Era un fine settimana d'autunno, da poco era iniziata la scuola; andavo in prima elementare. Dalle scale saliva il profumo dell'impasto del ciambellone al cioccolato.

Avevo aperto gli occhi sentendo nell'aria un'atmosfera triste, cupa. Primula, la mia orsa di peluche rosa, era accanto a me nel letto. C'era silenzio nella mia cameretta, il grigio del cielo che si intravedeva dall'abbaino faticava ad illuminare la stanza. Mi trascinai fuori dalla porta ancora assonnata, strofinandomi le palpebre, abbracciata a Primula. Sentivo delle voci provenire dallo studio da sarta della nonna, così attraversai il breve corridoio.

Non ci sono fiori nel deserto - Parte I: Il castello di sabbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora