10. Sangue

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Equinozio di primavera, 2012

Edward.

Non sono mai stato un vincitore.

Nella mia vita, non ho mai vinto niente. Mai un singolo spicciolo ai gratta e vinci, mai una scommessa, mai una competizione che fosse una gara di corsa, di rapidità o di tabelline. Non ho mai trovato soldi per strada, non ho mai preso il voto più alto della mia classe, non sono mai stato primo in niente. Insomma, non c'è mai stata un trionfo nel registro vincite della mia vita.

E proprio perché non ho mai vinto niente, nemmeno il mio amore per Charlie avrebbe mai potuto vincere su qualcosa, tantomeno i miei genitori che mi si scagliano contro.

L'equinozio di primavera è sempre stato un giorno piacevole: l'annuncio della primavera, il fiorire della natura, il sole leggero che inizia a riscaldarmi il viso.

Ho sempre amato il giorno d'inizio della primavera fino a quell'anno.

Me lo ricordo perfettamente. È uno di quei giorni che non puoi dimenticare. Nemmeno a sessant'anni, mentre chiacchieri con i tuoi nipoti della tua giovinezza, puoi dimenticartene, anzi: è proprio il primo ricordo che ti viene in mente.

Ero con Charlie, quel giorno. Eravamo al parco, subito dopo scuola, lui mi coccolava i riccioli e io lo guardavo sorridermi dalle ginocchia su cui ero sdraiato. Il ciliegio sopra la sua testa iniziava a fiorire, e contornava i suoi occhi blu di un bianco rosato stupefacente, che dipingeva la porzione di cielo che la mia prospettiva mi permetteva di vedere di rosa. Charlie aveva una maglietta a righe blu e celesti, quel giorno. Me lo ricordo perché mi aveva asciugato le lacrime con la manica di quella maglia, qualche ora dopo. Ero così felice.

Avevamo passato un compleanno divertentissimo, il migliore dopo anni. Sua madre mi aveva preparato il mio dolce preferito, e Charlie mi aveva regalato un bracciale d'argento bellissimo. Ma il regalo più bello che potessi ricevere era lui. E non so se ne fosse mai reso conto, ma averlo, per me, era la gioia più grande che il destino potesse darmi.

Charlie era per me il pezzo del puzzle mancante.

Io ero il fiore e lui era la mia ape.

Eravamo così compatibili che non fu, così strano, poi, realizzare che non era il destino ad averci fatto incontrare ma il sangue. Buffo pensare a quanto fossi stato sciocco, credendo che una potenza sovrannaturale me l 'avesse destinato a me per amarmi. Era invece sempre stato lì, nascosto dalla mia vista, ma nessuno lo aveva mandato, nessuna freccia ci aveva colpito o nessuno dei due aveva ingerito qualche pozione d'amore.

È logorante volere così tanto una cosa che sai con tutto il tuo cuore di non poter avere. È una sensazione incomparabile. Sapere di non poter stare più sdraiato sul suo grembo a guardarlo innamorato, di non poter toccare più quella pelle, quelle mani, quelle labbra. Un po' come un bambino in un museo.

Guardare ma non toccare.

E quello era stato il gioco più difficile a cui avevo partecipato e ovviamente, non potevo che uscirne perdente.

E proprio perché non sono mai stato un vincitore, era ovvio che i miei genitori non mi avrebbero mai fatto vincere una partita contro di loro.

Alle quattro del pomeriggio del ventuno marzo io e Charlie eravamo appena rientrati a casa mia sporchi di erba e con qualche fiore incastrato nei capelli. Charlie era più raggiante che mai. Era così felice che pensavo la faccia gli potesse far male da quanto sorrideva. Lo stesso sorriso non lo avevano i miei genitori, che ci aspettavano cupi sul tavolo della sala da pranzo.

Un'aria di gelo mi invase le narici, portandomi ad affievolire piano piano la mia risata, che morì in qualche secondo. Le mie labbra si chiusero in una linea retta quando vidi mamma e papà a un lato del tavolo, vicini, con qualche foglio sul tavolo e una faccia triste. Non si erano mai seduti vicini.

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