10.

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Dylan.

Un fastidioso mal di testa si era insinuato tra le crepe del mio cervello. Mi cambiai velocemente, gettando sul pavimento i vestiti della sera prima, per mettermi comodo con una delle mie tute. Presi il borsone ai piedi della scrivania e lo aprì completamente per vedere se c'era tutto. Quando mi calai un ondata di profumo di rose mi invase i sensi, soffice, leggera, una ninna nanna soave che metteva a tacere ogni cosa.

Strinsi con forza i bordi della cerniere e strizzai gli occhi per un secondo, non sapevo nemmeno che diavolo mi stesse succedendo.

Basta, lei doveva sparire dalla mia testa.

«Cazzo!» Imprecai, tirandomi in piedi.

Le dita strisciarono tra i capelli, portandoli indietro, nervoso, per come avevo abbassato le difese davanti a lei. Mi ero sentito debole per un attimo, mi ero sentito come se stessi per crollare, come se avessi potuto liberarmi del male che avevo dentro, del male che mi avevano fatto, di quel male che mi avevano lasciato addosso. E sentire quella sensazione sconosciuta che non sapevo a cosa appartenesse, mi stava soltanto logorando dentro.

Sbuffai rumorosamente voltandomi verso l'alba, che finalmente si faceva vivida nel cielo, e mi sedetti sul bordo del letto nello stesso istante che il mio telefono prese a squillare. Tessa cominciò a martellarmi di chiamate, sicuramente furiosa.

Le risposi alla terza chiamata, rifilandogli che mi ero alzato per andare a casa per cambiarmi, prendere il borsone e lo zaino perché non riuscivo a dormire.

La verità era che non ero riuscito a chiudere gli occhi accanto a lei. Mentre mi beavo delle curve mozzafiato di Tessa, nella mia testa c'erano solo due occhi verdi sconosciuti a cui pensavo.

Quindi mi ero alzato in silenzio e avevo lasciato l'attico senza dirle nulla, per tornare a casa e mantenere la mia promessa. Anche se non mi aspettavo di trovarla lì, tra le mie cose, seduta sul mio letto. Non appena ero entrato nella camera e avevo visto la sagoma scura del suo corpo, mi era strisciato qualcosa di sconosciuto dentro. Qualcosa che non ero pronto a sentire.

Aspettai ancora un po', nel silenzio di camera mia, fino a quando non mi resi conto che fosse ora di andare e mi dovetti alzare controvoglia.

Afferrai lo zaino, mettendolo a mezza spalla e il borsone sopra di esso. Scesi le scale, mentre sentivo le voci di Richard e Rylie farsi sempre più vivide.

Passai dritto, tirando per la mia strada, come se in quella stanza non ci fosse nessuno. Le passai accanto, senza neppure guardarla in faccia, ma i suoi occhi li sentivo bruciarmi su ogni parte del corpo.

«Dylan!» Mi madre urlò il mio nome, esasperata.

Mi dispiaceva essere così freddo e distaccato con lei, ma in parte, la colpa di aver sviluppato quel carattere orribile era anche sua.

Lei non avrebbe dovuto lasciare che mio padre mi facesse del male, lei doveva essere la prima a proteggermi.

Lei avrebbe dovuto salvarmi, e basta.

Sbattei il portone di casa, con forza, forse troppa, e salì il macchina dopo aver gettato il borsone e lo zaino nel cofano.

Non avevo nessuna voglia di andare a prendere Tessa, ma dovevo farlo. In verità non avevo nemmeno voglia di seguire le lezioni, l'unica cosa che avrei voluto fare era raggiungere il campo da basket, e giocare fino a non sentire più i muscoli del corpo. Era l'unica cosa che mi rendeva libero; sentire la palla aderire ai polpastrelli, il rumore del rimbalzo sul parquet pompare nelle orecchie, il tonfo silenzioso del canestro. Quella era la mia via unica via d'uscita, l'unica cosa per cui vivevo veramente.

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora