25.

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Dylan.

Sentì il cigolio della porta spalancarsi, ed una ventata d'aria soffocante riempirmi i polmoni.
Non alzai nemmeno il viso, rimasi immobile, seduto sul bordo del suo letto, con la testa fra le mani, aspettando che lei dicesse qualcosa.

«Dylan?» Rylie si avvicinò con cautela, a piccoli passi, che si infrangevano piano sul parquet scuro, impaurita come se potessi sbranarla.

Il suo profumo invase all'istante la stanza, riempiendo finalmente quel vuoto che sentivo dentro. Lo stesso vuoto che solo lei riusciva a colmare ogni volta che mi stava accanto.

Mi passai una mano sulla fronte, e portai i capelli indietro alzando lo sguardo.
La fissai nel buio della penombra di quella stanza che stonava con la sua personalità, si tolse il giubbotto di pelle e lo fece scivolare sulla sedia della scrivania.

«Che ci fai in camera mia?» Nella sua voce ci fu una punta di fastidio, ma non mi importò.
Avevo capito perché non volesse che nessuno entrasse in quella stanza, ma io ormai sapevo tutto, sapevo cosa nascondeva ed era per quello che non mi cacciava quando ci mettevo piede.

«Eri con lui?» Gli chiesi riluttante, quando notai il suo aspetto scompigliato e gli occhi brillarle di dolore. Lo stesso dolore che lei si teneva stretto, perché sapeva che fosse l'unica cosa che la teneva legata a lui.

Lei aprì leggermente le iridi, sorpresa da come fossi stato in grado di capirlo all'istante. La luna le illuminò gli smeraldi che aveva incastrati dentro, lasciando che quello che provavo per lei aumentasse a dismisura.

Si avvicinò ancora, poggiò una mano sul mio ginocchio e strinse leggermente, incastrandosi tra le mie gambe. Ci stava così bene, che avrei voluto legarmela addosso.

«Perché puzzi di alcool?» Mi chiese ignorando la mia domanda, aggrottando le sopracciglia.

Avevo finito gli allenamenti quel pomeriggio, e poi non me l'ero sentita di tornare a casa subito, avevo avuto bisogno di tempo per pensare, ma ero arrivato alla conclusione che non sapevo nemmeno come mi sentissi. Lasciare Tessa era stata una doccia fredda, nonostante non provassi nulla per lei, era come se quell'abitudine ormai rotta mi creasse nostalgia e benessere allo stesso tempo. Ero confuso, come mai prima di all'ora.
Avevo aspettato che tutti andassero a dormire prima di rientrare, ma quando ero tornato e avevo sbirciato in camera sua perché avevo bisogno di vederla e non l'avevo trovata, era come se mi avessero squarciato il petto a metà.

«Io ti racconto i miei traumi, mando al diavolo la mia vita per te, e tu ritorni di nuovo da quello stronzo che ti ha mollata.» Digrignai a denti stretti, portandomi le mani ai capelli.

Lei si ritrasse, non capendo perché le avessi appena detto in quel modo. In realtà non lo sapevo nemmeno io, era come se fossi in un punto della mia vita dove dovessi prendere una strada diversa dalla solita.

Un maledetto bivio.

«Ma che stai dicendo?» Scosse il capo lasciandomi intendere che non era come pensassi, confusa, pronta sulla difensiva con la sua armatura addosso. «Di cosa mi stai accusando esattamente?»

I tratti del suo viso si tesero, infastiditi.

Mi sporsi verso di lei, l'afferrai per un polso e la incastrai perfettamente tra le mie gambe. Le portai le mano sulle guance e la fissai dritta negli occhi.

Mi calai sulle sue labbra senza riuscire ad avere il controllo dei miei movimenti, ma lei mi bloccò stringendo la bocca.
Chiuse gli occhi e appoggiò la fronte sulla mia, respirando debolmente.

«Non posso Dylan, non posso.» Soffiò, combattuta.

Ingoiai il groppo in gola.

«Lo so.» Le dissi riluttante per tranquillizzarla, mordendomi la lingua.

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora