43.

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Dylan.

Mi schiodai dal pavimento e uscì dalla mia stanza dopo aver recuperato quel foglio dal pavimento. Mi guardai intorno, circondato dal silenzio e dal rumore del mio battito cardiaco che mi esplodeva nelle orecchie. Faceva un male cane, un dolore che non conoscevo si insinuò nel mio petto e si prese il mio respiro.

Sarebbe successo, inevitabilmente sarebbe successo. Avevo rovinato tutto, e anche se l'aveva detto in quel modo cattivo e subdolo, lei aveva ragione. Io ero proprio come loro.

Rimasi a fissare il vuoto, incapace di muovermi. Non riuscivo a pensare a niente, sentivo solo il peso della mia bugia incombere sulle mie spalle e la consapevolezza che l'avevo appena persa del tutto, nonostante non l'avessi mai avuta completamente.

Richard spuntò dalla rampa di scale strisciando i piedi e con lo sguardo basso, ma quando alzò gli occhi e si scontò con me, corrugò la fronte. Da quando Rylie se n'era andata, sembrava essersi portata con se un pezzo di lui, era incredibile quanto il loro legame potesse essere forte e nessuno di loro due l'aveva ancora capito.

«É successo qualcosa, figliolo?»

Si avvicinò, tanto vicino da farmi paura. Mi sentivo un codardo, e sebbene provassi un'angoscia interiore nel non sapere cosa sarebbe successo dopo, sapevo che era arrivato il momento di liberarmi di quel peso e di confessare le mie colpe.

«Devo parlati.» Mi resi conto che la mia voce era strozzata, faticai a tirare fuori le parole e non sapevo da dove iniziare.

Lui assottigliò lo sguardo su di me e non so perché, ma si guardò intorno e si allentò la cravatta al collo.

«Adesso.» Quasi ringhiai.

Ero arrabbiato marcio con me stesso, e non sapevo che cosa ne avrebbe fatto di me. Sperai solo nella sua immensa bontà che avevo ignorato fino a quel momento.

Mi indicò di seguirlo nella stanza dove teneva tutti i suoi documenti, una specie di ufficio, più o meno come quello di mia madre, ma poco usato. Richard non lavorava mai a casa, non portava i suoi pazienti lì.

«Ti ascolto.» Posò delle carpette sulla scrivania insieme alla sua valigetta da lavoro e poi si voltò, appoggiandosi ad essa. «Se si tratta di tuo padre, sai che-.»

«No.» Tuonai, nervoso. «Lui non centra.»

Ispirai profondamente, quando il suo sguardo si intensificò su di me. Senza rendermene conto esitai troppo, ma le parole mi erano rimaste incastrate in gola e mi stavano soffocando.

«Dylan? Parla e basta, qualsiasi cosa la risolviamo, come sempre.»

«Mia madre ha falsificato il test del DNA tuo e di Rylie.» Sputai fuori a pieni polmoni.

Richard corrugò la fronte e scosse il capo guardando il vuoto. Dapprima sembrò non capire, poi d'un tratto sembrò collegare qualcosa nella sua testa e mi inchiodò gli occhi addosso. Il suo petto prese a respirare in modo irregolare, si portò una mano sul cuore, massaggiandolo come se gli dolesse.

«Che cazzo vuol dire?» Drizzò le spalle, le sue pupille si dilatarono.

Non mi pareva nemmeno si avergli mai sentire dire una parolaccia del genere, e quello sguardo di rabbia non era mai stato cosi intenso dentro di lui.

Alzai una mano, dove tra le mani avevo il foglio ormai completamente stropicciato che avevo raccolto poco prima da terra, e glielo porsi.

Lui lo fissò confuso, poi lo prese e fece scorrere gli occhi su quell'inchiostro nero.

«Ma che?» Scattò su di me ormai completamente sconvolto e confuso. «Dylan?»

«Lei non vuole che Rylie faccia parte di te, non so perché, ma la odia. Non vuole che tu abbia distrazioni da Yole, che divida le cose con lei. Mia madre ha fatto tutto questo per fa sì che tu la cacciassi da casa.»

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora